Pianura a pedali/4 | Tra Pescarolo e Pieve Terzagni (CR)
Dopo mesi di nebbia e gelo è finalmente marzo, con un sole come questo io non posso che salire su una bicicletta recuperata nella cantina della nonna a Vescovato e, con grande sprezzo del pericolo, avviarmi verso il paese confinante, Pescarolo. I campanilismi, come si sa, non hanno alcuna ragione di esistere. Infatti la conflittualità tra vescovatini e pescarolesi affonda le sue radici nella notte dei tempi e ancora oggi noi la perpetuiamo ciecamente senza tante domande, come una verità rivelata.
A riaccendere il conflitto tra le fazioni è il frequente appellativo di “fagiolo” con cui da sempre il vescovatino chiama il pescarolese, e lo stesso pescarolese chiama se stesso. Leggenda narra, infatti, che, quando ai primi del Novecento venne ricostruita la chiesa di Pescarolo in seguito ad un incendio, i pescarolesi si ritrovarono senza crocefissi per adornarla e decisero di chiederli ai vicini di Vescovato, ripagandoli poi con sacchi di fagioli. Questa è solo una delle possibili spiegazioni di un soprannome che, molto probabilmente, ha origini anche più antiche. Di certo noi, da tempo, non perdiamo occasione per usarlo, tanto che è raro che una coscrizione si concluda senza uno scambio di battute sulla linea di confine tra Vescovato e Pescarolo
Ah, già, la coscrizione… i diciottenni dei paesi di provincia sono soliti festeggiare il raggiungimento della maggiore età e la partenza per la leva, che non c’è più, con una settimana di baldoria per le vie paesane, offrendo vino ai passanti, suonando clacson e trombette, facendo falò nei campi e concludendo il tutto con un tour notturno a scrivere con la pittura bianca frasi canzonatorie davanti alle case e per le strade, ovviamente cercando di non essere colti sul fatto. La coscrizione rimane una delle esperienze più indimenticabili nella vita di un giovanotto di campagna e solitamente, qui a Vescovato, non manchiamo di ribadire con almeno una scritta che quelli di Pescarolo sono dei fagioli.
Fatte queste doverose premesse ammetto che il mio sangue è per un quarto pescarolese e, per rendere onore al mio albero genealogico, mi accingo a raccontarvi gli affascinanti misteri di questo piccolo paese e le amene vicende della sua frazione, Pieve Terzagni.
Imbocco le strade basse a Nord di Vescovato che affiancano la famosa cascata della Ciria, costeggiano alcune anse del canale e, svoltando a destra ad un incrocio, portano al secondo ingresso di Pescarolo. I campi appena attraversati sono quelli che ho percorso in bici, a piedi o cercando di correre almeno una volta a settimana per i primi vent’anni della mia vita, li conosco così bene da poter chiamare per nome ogni singola nutria e, nonostante la mia recente fascinazione per fiumi e golene, questa è la mia vera campagna, tutta uguale all’infinito, nella nebbia o nel caldo estivo, immutabile da sempre.
Entrando in paese ho la solita stupida sensazione di poter girare in eterno senza arrivare mai in piazza, Pescarolo ha una forma concentrica terribilmente disordinata, per questo il visitatore inesperto può vagare a lungo senza intravedere il centro. Puntando il campanile che svetta tra le case arrivo infine nella piazza e appare subito di fronte a me la chiesa dedicata a Sant’Andrea, quella bruciata nell’incendio e rimasta senza crocefissi. Si racconta che l’ingegner Venturini, uno dei responsabili della riedificazione primonovecentesca, ne riprodusse una uguale pochi anni dopo ad Addis Abeba. Ho scandagliato tutto l’internet cercando invano la chiesa-copia di quella di Pescarolo ad Addis Abeba e non ho trovato nulla, se non una chiesa molto simile ad Asmara, non proprio a due passi, anzi, nemmeno nello stesso stato. Metto qui una foto segnaletica, se doveste vedere una chiesa così da qualche parte in Etiopia o in Eritrea sappiate che è la chiesa di Pescarolo.
Nella piazza della chiesa si tiene per tradizione la festa che ha reso famosa Pescarolo in tutto il circondario, il carnevale, che prosegue anche in tempi odierni con le sue maschere e i suoi carri, con tanto di premiazione finale del carro più bello che si aggiudica il premio del Fagiolo d’oro. Il Carnevale di Pescarolo, giunto quest’anno alla 53° edizione, si conclude con il famoso Falò, di cui si ha notizia già nel lontano 1666. Il Falò di Pescarolo è un grande momento di festa, un rito apotropaico che inizia con lo sradicamento della grande quercia, l’attraversamento del paese con il trattore Landini, il trasporto dell’albero fin nella piazza, il sollevamento al lunedì pomeriggio del tronco decorato con ombrelli colorati (il cosiddetto “lunedì della pianta” o “lunedì del falò”), la formazione della catasta e l’accensione finale tra canti e danze finché tutto diventa cenere eccetto la quercia stessa.
Le gente dei paesi attorno accorre alle ore 20,00 di ogni martedì grasso e comincia da subito a camminare in senso antiorario intorno all’albero, tradizione vuole che si debba esprimere un desiderio facendo tre giri intorno alla catasta in fiamme, o comunque un numero di giri multiplo di tre. Martedì 28 febbraio c’ero anch’io attorno al fuoco e ho fatto i miei sei giri, ascoltando canzoni popolari e bruciandomi mezza faccia con un po’ di manec pescarolese nel bicchiere.
La memoria storica e fotografica della tradizione del Falò è tramandata da un libro che ho ricevuto in dono tanti anni fa da Stefana, storica presidente del museo del Lino e memoria dell’intero paese. Il Museo del Lino è da sempre una tappa imprescindibile per chiunque visiti Pescarolo, nasce nel 1975 e raccoglie attrezzi e manufatti per la lavorazione domestica del lino e della seta, attività tessili basilari per l’economia locale fino agli anni Trenta del Novecento. Passo davanti al Museo con la Gitan Verde di mia nonna, entro, saluto, scatto due foto e riparto verso i campi in direzione Seniga.
Di fronte a me, verso Brescia, le Alpi innevate sembrano vicinissime e mi illudo per poco di poterle raggiungere in bicicletta, il progetto sfuma quando appare sulla mia destra la seconda meta del mio itinerario, un monumento di origini antichissime perso in mezzo ai campi, il Santuario della Madonna della Senigola. Si tratta di un piccolo oratorio campestre con annessa una sagrestia, sorto in un insediamento datato I sec D.C, come confermano i resti di una casa romana e di un mosaico trovati proprio nei pressi della Senigola. Il complesso oggi non è visitabile, seguo comunque a piedi la muraglia di cinta sperando di intravedere qualcosa ma senza risultati, riparto quindi, controvento, per la strada bassa che mi porta fino a Pieve Terzagni e alla sua piazza.
Qui, nella chiesa dedicata a San Giovanni decollato, c’è un mosaico pavimentale datato 1100 che raffigura, tra i tanti soggetti, anche animali mitologici come grifoni e sirene bicaudate, le famose melusine. Il mosaico che ha reso celebre la chiesa è però il quadrato del SATOR, eccezionale palindromo e simbolo magico potentissimo, collocato per qualche ragione proprio in questa pieve dispersa nella pianura. Gli abitanti del paese, fomentati da servizi televisivi e dal passaggio di visitatori cercatori di misteri, sembrano aver preso davvero sul serio la storia del quadrato magico tanto da dare il nome del SATOR anche al bar nel piccolo centro della frazione.
Sperando di propiziarmi qualche divinità del raccolto o semplicemente un po’ di fortuna entro anch’io a bere qualcosa, poi risalgo in bici e ritorno sui miei passi. Seguendo il disegno che il canale Aspice traccia nei campi entro di nuovo a Pescarolo e pedalo verso casa sulla strada che a giugno, ogni sera, è percorsa da un temporale che va regolarmente a scaricarsi su Vescovato. Io l’ho sempre chiamato “il temporale di Pescarolo”, infatti, da quando vivo a Cremona ne ho perso definitivamente traccia. Probabilmente, nelle prime sere d’estate, continua ostinatamente a rovesciarsi in segno di sfregio sui vescovatini inermi. Ma va bene, è giusto così, dovranno pure vendicarsi in qualche modo questi fagioli.
Melissa Fontana