Petite Maman. Le stagioni diverse di Céline Sciamma
“Il punto di vista dei bambini è stato al cuore di ogni decisione che ho preso durante la realizzazione. Quando ero incerta su una scelta da fare durante le riprese mi chiedevo: “Che farebbe Miyazaki?”. E alla fine la bilancia pendeva sempre dalla parte dei bambini. Questo non vuol dire che abbia scelto le soluzioni più facili, anzi: spesso ha significato fare la scelta più poetica e radicale.” (Céline Sciamma, Cineblog)
È tradizione, ormai, che a Bologna i film di Céline Sciamma arrivino prima di tutto al Galliera, cinema letteralmente underground – si nasconde proprio sotto al Sacro Cuore, appena dopo il ponte della stazione ferroviaria – che da anni, non me ne voglia la Cineteca, regala la programmazione più apertamente progressista in città.
Di qui sono passati, tra i mille altri, i bellissimi 120 Battiti al Minuto (Robin Campillo), Mustang (Deniz Gamze Ergüven), Border (Ali Abbasi), Senza Lasciare Traccia (Debra Granik); di qui era passato un paio d’anni fa Ritratto della Giovane in Fiamme, mood piece che a inizio pandemia descrivevo come ”un mondo onirico popolato di sole donne in cui le figure maschili sono distanti e compaiono al principio e alla fine del film con l’unico compito di ricordare loro che nella realtà in cui questa finzione prende corpo esse non hanno alcuna libertà per sé”.
Non c’è di che sorprendersi che Sciamma sia una delle registe del cuore di questa piccola sala, che ancora vede la Settima Arte come una via per raccontare una certa idea di mondo più che una scorciatoia per raggranellare sottoscrizioni e tirare a campare – e badate bene che qui lo snobismo non c’entra nulla: al Galliera ci siamo goduti pure I Guerrieri della Notte, la sera che Notre-Dame andava a fuoco.
Non c’è di che sorprendersi, dicevo, perché il cinema della regista francese parla un linguaggio fluido e personalissimo, che non dà mai l’idea che ci sia una telecamera a riprendere i personaggi – esattamente come nelle profondità dell’Abisso del Bifurto de Il Buco hai l’impressione di starci solo tu che guardi, e non che ci sia lì anche una troupe – sia che racconti l’adolescenza nelle banlieue dei nostri giorni (Diamante Nero), sia che si immerga in una storia d’amore omosessuale nella Francia del XVIII secolo.
Lo riconosci subito, un film della Sciamma, proprio come distingui sin dalle prime inquadrature un film di Kelly Reichardt da uno di Alice Rohrwacher o Jennifer Kent – per intenderci, niente che somigli alle raccolte di immagini stock della pluripremiata e decisamente meno dotata Chloé Zhao. Per questa ragione c’erano molte aspettative intorno a Petite Maman, sua ultima fatica presentata ad Alice Nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni dove poi s’è aggiudicata – grazie al voto dei trenta ragazzi della giuria – il premio come Miglior Film.
E quelle aspettative sono state più che ripagate da una meraviglia di lungometraggio che vede l’autrice ritornare alla misura di Tomboy, con cui condivide oltre alla durata contenuta uno sguardo dolcissimo al mondo dell’infanzia, stavolta però pervaso di un senso del magico à-la Miyazaki, modello dichiarato; non l’unico a essere rielaborato, a dire il vero, in un film che lascia addirittura tremanti e si riaffaccia alla mente vividissimo anche a giorni di distanza.
La trama, essenziale, li fa già intuire.
Nelly, otto anni, perde la nonna da tempo ricoverata in una casa di riposo; in compagnia della madre Marion e del padre, ne visita l’abitazione di campagna – spartana, sì: ma le sue porte, che guardiamo con gli occhi della bimba, sembrano sempre nascondere qualche mistero.
Durante una passeggiata tra le foglie secche del bosco che la circonda – mentre la mamma, travolta dai ricordi d’infanzia, è sparita non si sa bene dove e il papà cerca di non farlo pesare troppo alla figlia – Nelly incontra una coetanea che differisce da lei solo in qualche minimo lineamento del viso; altra coincidenza: anche lei si chiama Marion. La piccola è in attesa di un delicato intervento chirurgico, e quelli che trascorrerà con Nelly saranno giorni di scoperta e condivisione di dubbi e paure in cui il mondo adulto entrerà solo di rado, con passo trattenuto e come scusandosi di tutta l’incertezza che rovescia sui più piccoli che si trovano a seguirne le impronte claudicanti.
Sciamma lascia intuire l’incanto del sovrannaturale un dettaglio dopo l’altro – le case così simili; la somiglianza tra le madri delle bambine, a eccezione della pettinatura; le corrispondenze cronologiche dei percorsi di vita delle due Marion – senza il bisogno di spiegarlo con dialoghi troppo elaborati per l’età delle protagoniste. Tutto, in Petite Maman, semplicemente accade, avvolgendo lo spettatore nella coperta calda e malinconica di un mondo di fiaba, messo in scena con tenerezza ma non per questo privo di spine.
La sofferenza è di tutti, ed è impossibile da giudicare: la perdita e il rimpianto per aver detto a qualcuno che si ama parole sbagliate o solo imprecise, non immaginando che sarebbero state le ultime; lo sgomento che si prova da bimbi quando ci si rende conto di quanto sia fioca la torcia di chi ci precede e dovrebbe far luce per noi; la fatica che si prova da grandi nell’accettare che la vita sia perdere un pezzo alla volta. Ma nessuno è un’isola, ricorda Sciamma, girando scene memorabili in cui la vicinanza tra i corpi emana un calore distintamente percepibile anche da questa parte dello schermo.
Petite Maman avviene in qualche posto fuori dal tempo: non sembra il presente giusto perché non c’è alcuno smartphone a collocarlo nell’oggi e perché le cuffie con cui Nelly ascolta musica – “la musica del futuro”, la definisce la Marion piccina, con un’innocenza che stritola il cuore – sono figlie di un’altra epoca.
E se il valore di ciò che narra è universale, è il modo in cui lo fa a conferirgli uno straordinario valore artistico, capace di collocarsi tra influenze di massa – chiaramente Ritorno Al Futuro, da cui si distanzia per la volontà manifesta di non tingere il passato di un alone mitologico; i racconti di Stephen King, di cui Petite Maman potrebbe in effetti essere un apocrifo, oltre che il primo adattamento cinematografico sensato – e del grande cinema d’autore – a parte il già citato Miyazaki, è difficile non accostare gli occhi sgranati delle splendide Joséphine e Gabrielle Sanz a quelli, indimenticabili, di Ana Torrent nel classico Lo Spirito dell’Alveare di Victor Erice.
Là, in quel trascurato capolavoro di quasi mezzo secolo fa, era una proiezione cinematografica – il Frankenstein di James Whale – a portare il magico nella vita di una bimba nella Spagna violentata dalla guerra civile, offrendole una via di fuga dalla solitudine di una famiglia distrutta. In maniera in fondo non molto dissimile, in Petite Maman Céline Sciamma sceglie il cinema come strumento di conforto dei minuti ed esili, mostrandone i timori e la fantasia indomabili e chiedendo a noi adulti di non limitarci a guardare dalla riva e tifare per le loro imprese, ma di agire attivamente sostenendoli per quanto possibile mentre navigano le rapide.
“Quando ho ripreso in mano il primo abbozzo di sceneggiatura, alla fine del lockdown in Francia, ho capito dalla prima scena – l’addio agli ospiti di una casa di riposo – che il film era più necessario e rilevante che mai. Anche per il fatto stesso che parlasse di bambini: i bambini hanno sofferto molte delle crisi e delle difficoltà degli ultimi tempi, spesso rimanendo fuori dal dibattito politico. Credevo fosse vitale includerli, offrire loro delle storie, trovare il modo di collaborare insieme.” (ibid.)
Titolo: Petite Maman
Regia, sceneggiatura: Céline Sciamma
Distribuzione italiana: Teodora Film
Cast: Joséphine Sanz (Nelly), Gabrielle Sanz (Marion), Nina Meurisse (la madre), Stéphane Varupenne (il padre), Margot Abascal (la nonna)
Durata: 72′
Anno: 2021