Perugia straziami, ma di Baci saziami
“A sinistra là in fondo c’è il Subasio e c’è Assisi, la Basilica si vede bene persino da qua. Verso il centro, dritto davanti a noi, beh, c’è Roma ma si capisce solo di notte per il bagliore all’orizzonte, insomma, mica si vede…però lì, dopo Terni, si riconosce il Tevere e la sua valle. C’hanno un olio laggiù che è la fine del mondo!” Tendo le orecchie per carpire più cose possibile. Davanti a me sono tutti in fila per esaminare colli e borghi col cannocchiale, monetine alla mano. Mi unirei a loro, se non fosse che lì a Piazza Italia io ci sono arrivata con in mano una fumante cioccolata al bicchiere e tanto mi basta per godere del panorama.
Il corso Vannucci alle mie spalle barlugena (come dicono da queste parti) anche più delle cittadine che osservo incantata e che Perugia domina dall’alto. Ci sono bancarelle di antiquariato, stand di dolciumi caldi, giostre, sculture di cioccolato. Si cammina pianissimo e con grande fatica in questa folla di golosi infreddoliti dal vento della prima sera che comunque non s’arrende. L’Eurochocolate ha l’ambizione di una festa popolare in piena regola, di quelle antiche che m’immagino secoli fa in queste stesse strade, un carnevale che per giorni e giorni non conosce sosta, né silenzio né è mai sazio. C’è la tradizione e c’è l’innovazione in questa festa, c’è la cioccolata italiana e il cacao del Sud America, ci sono le nocciole e c’è il peperoncino, c’è la grande industria internazionale e le botteghe artigianali. Ci sono i Baci, bianchi o neri, con la loro cupoletta inconfondibile oramai iconica. Ci sono le miscele calde e liquide con gli aromi più improbabili, le intransigenti tavolette cento per cento di cacao che sono un’esperienza da non perdere, poi bombe di Nutella, biscotti, gelati e frittelle; pistacchi, arance, mandorle, caffè, sempre mischiati al cioccolato, in crema, fuso, a quadretti, in polvere. C’è chi si scalda con un bombardino, chi sorseggia rum e chi affonda il cucchiaino nella panna, chi addenta tartellette, chi compra mele caramellate, lecca-lecca e mousse. Le ore passano senza coscienza, la glicemia sale e la testa gira: è un’orgia zuccherosa, il girone dantesco della gola. Mi viene in mente Pinocchio che si ritrova con le orecchie d’asino e poi la coda e poi gli zoccoli e allora è troppo tardi: decido di scappare dal Paese dei balocchi finché sono in tempo, prima che la dolcezza si faccia nauseante e che il gusto ecceda la misura che lo rende “buon”.
Dai lati del corso partono vicoli e scalinate in discesa che sono la mia via di fuga. Man mano che mi allontano aumenta il silenzio e rallenta il mio passo. Il centro di Perugia è un labirinto di pietre, di palazzi irregolari che disegnano angoli, vicoli ciechi, salite, piccoli slarghi deserti. Inutile darsi una direzione, sono passata da una confusione ad un’altra. Passo sotto un arco giù per degli scalini, un portoncino chiuso mi obbliga ad andare ancora avanti. Sembra quasi un viaggio nel tempo, indietro di mille anni. Sono così lontana dal cioccolato e dalla ressa turistica che quasi ne sento la nostalgia, quando un gruppetto di ragazzi seduti per terra mi riporta alla realtà. Fumano e stappano bottiglie di birra, ridono e addentano torte al testo strabordanti di prosciutto. Mi indicano la fonte di quella prelibatezza: un buchetto invisibile illuminato quel tanto che basta a farsi scovare. Solo – e dico solo – torte al testo. Ma per farcirle, ogni ben di dio. Prosciutto di Norcia tagliato al coltello, finocchiona, coppa, lardo, ciauscolo, pecorino dolce e poi erba, che per i perugini significa una qualsiasi verdura di stagione. C’è un intero territorio in quella fetta di impasto cotto su pietra, il testo appunto, e nella sua farcia. Si sentono i boschi e i pascoli e i campi umidi. Di colpo tutti quei dolci mi sembrano una forzata intrusione, una trovata brillante eppure stonata. La festa originaria era quella che si faceva al maiale quando non se ne buttava niente, e allora per un anno ci sarebbero state salsicce, salumi e prosciutti, pancetta, sugna, conserve e ciccioli, i pezzettini di grasso di scarto della cotenna che ancora oggi si usano per preparare pane e torte salate. E mica solo queste sfornano le panetterie: torta al formaggio, ciaramicola (dolce pasquale con l’alchermes), torcolo di San Costanzo.
Del resto, in barba a qualsiasi menù turistico, un certo orgoglio di conservazione delle tradizioni gastronomiche traspare dalle lavagnette scarabocchiate all’ingresso di ogni ristorante. L’Umbria è terra di viti e di ulivi centenari, da cui si ricavano alcuni tra i migliori vini e oli d’Italia; è terra di cacciagione, grandi arrosti di cinghiale e di maiale, di prelibatezze selvatiche dei boschi come le bacche aromatiche, gli asparagi, i funghi e, soprattutto, i tartufi. Non a caso, in cima alla gerarchia dei piatti perugini ce n’è uno che racchiude, seppure con non poco peso, tutti questi sapori: gli umbrichelli alla norcina. Il sugo, pressoché onnipresente in tutta l’Umbria, si prepara con la salsiccia fresca di Norcia, la ricotta appena fatta e quindi ancora calda e cremosa, il pepe e tanto, ma tanto, tartufo nero.
Sarà anche un clichè quello che fa di Perugia e delle sue campagne un’oasi verde dove il tempo dei comuni e delle guerre, degli artisti e dei signori, è rimasto immutato, ma la realtà non lo contraddice poi di molto. A tavola, i sapori confermano la mia impressione: c’è un’ostinata fedeltà a se stessi nell’animo dei perugini, arroccati come sono entro le loro mura e le loro ricette, nonostante pure le più varie incursioni esterne, da quelle delle nuove comunità multietniche a quelle delle orde di studenti universitari. Di notte poi, fuori dal centro, si scopre un altro universo ancora, fatto di anonime case che a tarda notte hanno le tv accese dietro i balconi col bucato ad asciugare, distinto dal carnevale di dolci, dai ragazzi per strada nei vicoli, dalle vinerie di lusso. C’è una Perugia di zucchero e una Perugia di ciccioli, una internazionale e una campanilista, una antica e una nuova, una che barlugena e una buia. E tra loro i confini sono netti. Perugia non si è evoluta per mutazione, ma per aggiunta, accatastando differenze, stratificandosi. Lo dimostra l’architettura, la cucina e, sospetto, persino il marketing, che mentre mette in mostra l’arte dei cioccolatieri, lascia gravitargli intorno torte al testo e focacce al formaggio.
Qualche indirizzo che piace a Trippa:
- Ristorante Ferrari, via Scura 1: la norcina migliore della città in una location elegante e super tradizionale
- Umbrò, via Sant’Ercolano 4: ristorante e store di prodotti tipici umbri, con terrazza panoramica dove godere di serate a tema, conferenze e degustazioni
- Sandri, corso Pietro Vannucci 32: antica pasticceria dal 1860 sul corso principale, con vetrine ricche di sculture artistiche di cioccolato e dove poter assaggiare la famosa “Goccia”
- Testone, via Settevalli 445: ristorante moderno, fuori dal centro, dove assaggiare torte al testo a km 0
- Laciodrom, via delle Prome 18: atmosfera lounge etnica davvero accogliente, dove bere vino locale e birre internazionali ascoltando musica dal vivo