Personal Shopper, Olivier Assayas fra medium e media

Personal Shopper, Olivier Assayas fra medium e media

Una nuova definizione di disagio

Oliver Assayas ci regala con Personal Shopper un film che è tante cose insieme, non tutte subito e facilmente decifrabili. In agguato sotto l’apparente linearità della storia, infatti, ci sono una serie di specchi deformanti e sfaccettati che rimandano ad altre realtà, ad altre storie.

È un film che parla del distacco, nascondendolo dietro una storia di fantasmi. La difficoltà della protagonista a trovare il proprio centro esistenziale dopo la morte del fratello gemello è molto umana ed guida la trama, negli strani gesti quasi stralunati e nelle espressioni di disagio di Kristen Stewart. Ma è anche un film sulla fenomenologia dell’apparenza, sospesa fra desiderio e tabù totemico, dove la trasgressione si specchia nel circolo vizioso della moda. È infine (e soprattutto) un film che parla di presenze ed assenze, giocando coi termini della proposizione, nel mondo moderno. La ricerca di Maureen della presenza del fratello morto si sovrappone a ricerche ed inseguimenti di presenze sui nuovi media. La medium si trova spersa nei media, in un gioco a specchi di parole molto riuscito. Ed questi media altro non sono che proiezioni dell’assenza, che Maureen sfiora, dove social e fantasmi si intrecciano inscindibilmente.

Perché vedere il video di una persona scomparsa da anni è un po’ come riportarla in vita attraverso una seduta spiritica. Ugualmente, lo stalker di Maureen è incorporeo come il fantasma del fratello (e per un momento passa per la testa che lo sia realmente). Così la datrice di lavoro (la Diva per cui la protagonista fa la personal shopper) è una presenza quasi impalpabile: esiste solo tramite la voce al telefono e le lettere lasciate sul tavolo. Neppure il fidanzato della protagonista esiste in quanto corpo, ma lo vediamo solo tramite Skype (e quando la giovane lo andrà a trovare, sul finale, lui sarà assente). La doppia faccia delle tecnologie è questa: unisce mondi che rimangono, però, a loro estranei. Come una seduta spiritica. E dall’altra parte (del telefono/del video/del tavolo a tre gambe) ci sono persone reali o entità di altri mondi astrali? O forse solamente la nostra fantasia, la proiezione del nostro disagio. Possiamo davvero essere sicuri che ciò che vediamo sullo smartphone sia più reale dei fantasmi visti da Victor Hugo e Eusapia Palladino?

Il film, però, è anche la storia visiva di una donna. L’unico corpo che esiste e lotta per affermare la propria esistenza è Maureen, interpretata da Kristen Stewart, che si dimostra più fotogenica che brava. Il corpo-feticcio dell’attrice viene indagato dalla cinepresa di Assayas con minuzia, a cercare nelle sue pieghe, nelle sue curve sensuali ed androgine le cause del disagio che il volto mostra continuamente, anche quando accenna un sorriso (ma poi no, è solo una colica). Ma è anche un corpo che afferma la propria realtà e presenza. Gli unici momenti in cui sembra a suo agio è quando si tra-veste, impersonando la sua datrice di lavoro, riempiendo la sua assenza con la presenza del corpo. Non quando scompare negli indumenti sformati (il maglione!) entrando da Cartier per fare acquisti; o quando vestita peggio (no, dai, la cuffia no) discute con un fastidioso amico di suo fratello di vita oltre la morte. Ma quando coperta di paillettes si fotografa per il suo stalker o si specchia per il voyeristico occhio della macchina da presta, in un corpetto a fasce di pelle.

Personal Shopper è un film che con pazienza scava nella storia, così come nello spettatore. Una profonda riflessione sul mondo moderno, nascosta sotto un film all’apparenza semplice.

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