Paterson | William Carlos Williams
Tra i villain più temibili e memorabili della cinematografia degli ultimi anni una menzione d’onore va a Marvin, il bulldog di Paterson, mite autista di autobus e poeta prolifero protagonista dell’omonimo film di Jim Jarmusch del 2016 e ambientato nell’omonima cittadina del New Jersey. L’atto efferato di Marvin è soltanto uno, ma epifanico e dolorossimo: in una notte di follia e solitudine tra le mura domestiche, fa a brandelli il quaderno che raccoglie tutte poesie composte dal suo padrone.
L’espressione di Paterson al rientro a casa, mentre guarda l’irreparabile smembramento che ha subito tutta la sua cospicua produzione poetica, è di un immobilismo contagioso. Mentre si siede sul divano, sconfortato, l’immobilismo è anche accompagnato da uno di quei silenzi che, se ascoltati bene, fanno intuire quel nitido crack di qualcosa che è andato definitivamente in pezzi come, non so, un flute da champagne in cristallo che cade sul marciapiede dal balcone del 23° piano. Un po’ lo stesso suono che ho sentito dentro di me da qualche parte nella zona alta del torace quando ho letto la bio di Marvin (all’anagrafe Nellie) su IMDB scoprendo della sua precoce scomparsa e che, grazie alla sua interpretazione, è stato il primo cane ad aggiudicarsi il Palm Dog postumo a Cannes.
Nell’accantonare per un brevissimo momento i kleenex, mi ricordo che uno dei poeti letti da Paterson è William Carlos Williams.
Ecco che entra dunque in scena un altro poderoso Paterson: un lungo poema diviso in 5 libri pubblicato da William Carlos Williams a partire dal 1946, ovvero la biografia di una città della periferia industriale degli Stati Uniti e, in parallelo, la storia di un essere umano (di molti esseri umani, in realtà: una cittadina intera, generazione dopo generazione).
William Carlos Williams è un poeta pragmatico che non poteva scegliere luogo diverso da Paterson, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, per descrivere le contraddizioni degli abitanti di una cittadina altrettanto ricca di incongruenze. Se da una parte, Paterson, ha avuto un ruolo determinante nella rivoluzione industriale degli Stati Uniti racchiudendo in sé dunque tutte le aspettative, le gioie e i dolori della modernità tanto attesa e desiderata, la cittadina del New Jersey presenta anche un’importante peculiarità nel suo lato più primordiale: le numerose cascate (il loro rumore fa da sfondo anche nel finale del film di Jarmusch, accompagnano il protagonista nella sua ri-composizione). La caduta impetuosa delle acque si accompagna a suoni confusi che dobbiamo ancora imparare a decifrare, un linguaggio che abbiamo tempo di scoprire, comprendere, prima che riprenda il suo corso a valle ritornando dunque silenzioso.
Leggere Paterson è come attraversare una vivissima Antologia di Spoon River nella quale gli uomini e le donne che si susseguono nel corso degli anni, con i loro racconti più o meno tragici, più o meno felici, si fondono con il luogo che attraversano e che cambia con loro, sia nelle sue componenti artificiali (a volte tanto titaniche quanto deludenti) che in quelle più naturali e selvagge. Non sempre è possibile distinguere la città dai suoi abitanti perché le due componenti si amalgamano in un largo abbraccio rovente. Può capitare che alcuni finiscano addirittura col chiamarsi con lo stesso nome del posto da cui provengono.
Ovviamente Marvin l’abbiamo già perdonato tutti da un pezzo, Paterson compreso. Mi sembra superfluo ricordare che la specie umana, della quale Paterson fa parte, non sia geneticamente programmata per serbare rancore per lungo tempo a un bulldog che si gira a guardati, consapevole o meno degli effetti della sua naturale irruenza, durante la quotidiana passeggiata pomeridiana al parco. Se qualcuno vi dice il contrario è perché non ne ha mai visto uno da vicino.
*
Preface
[…]
It is the ignorant sun
risingin the slot of
hollow suns risen, so that never in this
world will a man live well in his body
save dying – and not know himself
dying; yet that is
the design. Renews himself
thereby, in addition and substraction,
walking up and down.
and the craft
subverted by thought, rolling up, let
him beware lest he turn to no more than
the writing of stale poems . . .
Minds like beds always made up,
(more stony than a shore)
unwilling or unable.
Rolling in, top up,
under, thrust and recoil, a great clatter:
lifted as air, boated, multicolored, a
wash of seas –
from mathematics to particolars –
divided as dew,
floating mists, to be rained down and
regarthed into a river that flows
and encircles:
shells and animalcules
generally and so to man,
to Paterson.