Come se le parole non avessero memoria. Il ritorno degli Ex
Ogni anno, il Record Store Day arriva per me come una sorta di presa di coscienza. Amo da morire ancora oggi i negozi di dischi, sì, ma quello che vado cercando lì non è un qualche singolo raro ristampato per l’occasione da prendere e lasciare a prender polvere su uno scaffale, roba per farsi belli con gli amici. No. Nei record store io cerco ancora musica nuova e vecchia che mi lasci secco, da consumare sul giradischi o nel lettore, tra un play e l’altro su Spotify; e alla fine quella ricorrenza speciale diventa per me un’occasione per girarne diversi, di negozi della mia città, e comprare almeno una cosa per ciascuno. Un modo per ringraziarli, credo, di aver dato fisicità tangibile a una passione, prima che questa smettesse di avere un corpo.
Quando sono arrivato al Disco d’Oro – tappa obbligata, se passate da Bologna – l’atmosfera era euforica, da vera festa: gente che religiosamente faceva coda alla cassa per portarsi via qualcosa di bello, di importante. Io mi son preso Ege Bamyasi dei Can: ve lo ricordate quel capolavoro krautrock con lattina warholiana in copertina, vero? Un classico del 1972 dalla miglior band europea di sempre di cui colpevolmente non avevo ancora comprato una copia; e invece adesso sta lì, in vinile, vicino a Monster Movie, Soundtracks, Tago Mago e Future Days, appena prima del cofanetto antologico del geniale bassista e manipolatore di suoni Holger Czukay.
Ma la cosa che sono più felice di aver preso è una novità, uscita proprio in queste settimane: a otto anni dall’ultimo Catch My Shoe, infatti, sono tornati gli olandesi Ex. Un nome che giustamente a tanti di voi non dirà nulla; ma è giusto così, perché certe cose sono fatte per rimanere nascoste, perché la loro scoperta sia poi ancora più epifanica: perché qui non parliamo di una semplice band, ma di un collettivo che da quarant’anni va rinnovandosi ogni volta – nella formazione, nei suoni, nelle collaborazioni – e ogni volta suona sempre fresco, sempre nuovo. Il disco l’hanno chiamato 27 Passports, forse per quella loro innata vocazione mondialista che in carriera – come recita la bio su Bandcamp – li ha fatti innamorare di (e amare da) gente come Sonic Youth e Shellac, musicisti jazz, band del Kurdistan iracheno e un gigante del sassofono come Getatchew Mekuria (recuperate, prego, la loro collaborazione Moa Anbessa del 2006).
Togli la plastica e ti trovi davanti a un artwork splendido, e qui le grandi dimensioni del vinile non solo aiutano, ma si rendono necessarie: un libro di 36 pagine con gli scatti del chitarrista Andy Moor, scattate in giro per il mondo a ritrarre momenti di umanità varia, animali, paesaggi, a volte di una bellezza calda e confortante. Un giro del mondo per immagini, inaugurato da una foto di coloratissimi container, che mi ha richiamato alla mente un film visto di recente, Visages, Villages, documentario/road-movie che racconta l’incontro tra la leggendaria regista nouvelle vague Agnes Varda e il giovane street photographer JR e il loro viaggio per le regioni più sperdute della Francia alla ricerca di volti da immortalare e luoghi da abbellire con la pura forza dell’Idea. Lì dentro, perfino dei container possono diventare pure opere d’arte e celebrazione dell’ingegno umano e della bellezza dell’esistere nonostante tutto: lo stesso spirito che anima 27 Passports, in fondo.
Metti il vinile sul piatto e subito pattern ritmici circolari erompono dalle casse, solo apparentemente disordinati – un effetto che a me viene da associare al battito affannato della doppia batteria che i Radiohead usarono per Bloom, qualche anno fa; a menare le danze, come sempre, la batterista Katherina Bornefeld. Sopra i suoi eterni groove – capaci di stendersi per minuti e minuti, e quanto si sente che questa band ama quello che sta suonando – troviamo chitarre elastiche, saltellanti, che cozzano allegramente fra loro, esplodendo di un’energia che sa di rivelazione: ce ne sono tre, qui dentro, diciotto corde suonate da Arnold de Boer (che si occupa anche di tutte le parti vocali), Terrie Hessels (unico membro fondatore rimasto nella band, fedele dal 1979) e Moor; una miccia perennemente innescata, che dal vivo trova la propria dimensione ideale – se mai passeranno in posti vicini all’Italia, andateci: a me fischiano ancora le orecchie da quando li vidi al Primavera Sound, qualche anno fa.
Nota: aveva molto senso partire dai Can, sapete? Perché in un certo senso, e fatte le debite proporzioni, tra i solchi di questo 27 Passports si ritrova l’abbandono estatico al groove che contraddistingueva le opere maggiori dell’ensemble tedesco (e in particolare Ege Bamyasi, il più “facile” tra i loro classici). Qui non c’è tutto quel genio, non ci sono sezioni completamente improvvisate, non c’è ovviamente l’influenza di Stockhausen e della musica concreta, però ci si trova una versione aggiornata dello stesso spirito che consentiva a Suzuki, Karoli, Czukay, Schmidt e Liebezeit di costruire, come scrivono su Allmusic, “monster trance/funk beat”. In più, però, gli Ex ci mettono la consueta vena anarchica nelle liriche, ben evidente tanto nell’opener Soon All Cities (“presto tutte le città avranno gli stessi ristoranti / presto tutte le città avranno le stesse rotonde / presto tutte le città avranno gli stessi governi / presto tutte le città avranno gli stessi incidenti”) quanto nella chiusa – a precipizio, irrefrenabile, incandescente – di Four Billion Tulips, in cui si racconta la bolla dei tulipani del 1637: si tira in ballo perfino Charles MacKay (“la prima follia di mercato di massa, una bolla speculativa proprio vicino a casa mia”), prima di chiosare, sardonicamente, affermando “è il peggior lavoro che abbia mai avuto”. Proprio a metà, poi, curiosamente nel brano più breve, si trova lo scorcio più concettualmente significativo dell’intero lavoro: i centocinquanta secondi di Silent Waste, ispirati a un’intervista a Gloria Wekker e mossi dalla voglia di dire che, contrariamente a quanto i nostri tempi amino pensare, le parole hanno sempre un peso e delle conseguenze (“come se le parole non avessero una storia / come se il vento potesse semplicemente soffiarle via / come se potessi tornare indietro e nascondere tutte le tracce / come se non intendessi davvero ciò che dici”); un paradigma per l’intera arte degli Ex: precisa, attenta a sé e agli altri, semplicemente giusta.
Tutte le tracce fanno ballare e colpiscono egualmente, lasciando il segno, anche se la sequenza The Heart Conductor / This Car Is My Guest / Blank New Document è probabilmente il vertice dell’opera, quasi venti minuti con il cuore sulle barricate. Però la tensione, l’energia vitale, non si perdono mai, anche quando sembra che i brani siano tirati per le lunghe: c’è troppa voglia di suonare e di cambiare le cose, in questa musica, perché anche piccoli intoppi o pezzi tutto sommato minori non possano essere accettati come fisiologici; e d’altra parte gli Ex vanno sempre in studio senza avere nulla di scritto, e io m’immagino strumentali come Footfall prendere forma dagli sguardi d’intesa di chi suona.
Alla fine, la dice meglio di tutti The Quietus:
So che gli Ex sono spesso erroneamente descritti come una punk band. So anche che è qualcosa che li lascia perplessi, dato che sono altrettanto influenzati dal free jazz e dai suoni irrefrenabili di Etiopia e Ghana. Ma mi chiedo se la descrizione non sia accurata, proprio questa volta. La musica di 27 Passports è in qualche modo punk, suonata come forse gli idealisti di quel movimento se la immaginavano 40 anni fa.
Titolo | 27 Passports
Artista | The Ex
Durata | 56’
Etichetta | Ex Records