Ophelia| The Lumineers, il ritorno
C’è tutto lo scorrere di un fiume in Ophelia, il primo singolo del nuovo Cleopatra, l’LP dei The Lumineers in uscita l’8 aprile dopo quattro anni di trepidante attesa.
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Perché se ti svegli una mattina e realizzi di esser stato catapultato parecchio in alto da un debutto che ti è valso due nomination ai Grammy 2013 nelle categorie Best New Artist e Best American Album, è fisiologico un bel respiro profondo prima di azzardarsi a toccare la chitarra. Manca l’aria, a Denver. Succede tutte le volte che sai fare qualcosa, pensare che tutto sommato ti è solo andata bene e che prima o poi qualcuno ti beccherà, intendo. Sai, la fortuna, gli audaci e il dilettantismo allo sbaraglio.
In un’intervista rilasciata a Entertainment Weekly, Wesley Schultz ha anticipato che Cleopatra è un album partorito durante sei mesi di ritiro eremitico a Denver, e che darà voce alla transitorietà di una vita in balloquando non puoi che ballare folk-rock, a dinamiche che cambiano vertiginosamente in fretta e ti vogliono sul pezzo, sempre. Dice di essere uno po’ così, lui, inquieto, smanioso, sempre con un piede sul prossimo
treno, sempre a dire “io non sono qui”.
Wesley Schultz, uno di noi.
In Ophelia nulla è definitivo, ma tutto lascia intuire un arrivo, e anche una partenza. Orecchiabile, naturalmente. Il momento è straniante e intenso, quello in cui fissi il vuoto lasciando andare qualcosa che è stato bello ma che è finito, e quindi va bene, è tutto apposto, hai capito che forse hai perso un po’ della spensieratezza della prima volta (sì, la prima volta), ma ci hai guadagnato in struttura. Magari piove.
Stai sereno, lo dice il pianoforte.
I The Lumineers, infatti, mescolano l’arpeggio fortissimo della passione senza compromessi per la più spensierata e floreale delle vergini suicide a un bel brivido pieno di rimpianto da amore disperato (no, non esattamente alla Nada). Ne viene fuori il momento in cui il mondo che hai intorno profuma di aria fresca e all’orizzonte si profila l’inarrestabile primavera, ma c’è anche quella percussione che è un battito cardiaco accelerato e categorico, quella velata malinconia di fondo che suggerisce che presto o tardi i pensieri pesanti affonderanno come un bisturi nel morbido. O come Ofelia nella corrente. Il tête-à-tête con il fantasma, appunto, la transitorietà di delusioni e grandi imprese pronta in agguato.
Ed è al punto appena sopra il piloro in cui si raggrumano le cose che non sei riuscito a dire e non vanno su e non vanno giù alla Ovosodo, che puntano senza mezze misure i the Lumineers con Ophelia.
Le lasciano evaporare attraverso la pelle, scivolare nella corrente, complice la scansione di questo ritmo incalzante e preciso in contrasto con il virtuosismo spigliatissimo del piano, che alla faccia di tutta la precarietà prevista nel razionale, s’impone e scandisce un dancing barefoot pensieroso e nuvoloso.
D’altro canto Ophelia è la pazza più spensierata, quella che tra una corona di fiori e l’altra si lascia trascinare perdendo la testa per il m’ama non m’ama del tipo che chiacchiera, chiacchiera e non conclude. Simpatica.
Nell’intervista Schultz dice che si tratta del momento in cui tocchi il massimo e poi ti rendi conto che hai ancora una vita davanti.
Ophelia è qualcosa che ti è scivolato dalle dita, e poi ti mangi le mani perché ti rendi conto che è l’occasione trascinata via, a cui guardi con nostalgia anche senza gettarti nei fossi.
Transitorietà, frasi a metà, mezze idee, eroine preraffaellite che si suicidano in ruscelletti danesi, regine simboliste e ambiziose con un rapporto molto particolare con i serpenti (ma anche ispiranti tassiste che si chiamano Manana e vengono dalla Georgia, racconta lui, nemmeno fosse una scena di Pulp Fiction) e direzioni ostinate e contrarie per la tensione temporalesca dello scalpitio emotivo. Superata la spensieratezza situazionista di The Lumineers, qui si annusa qualcosa di più impegnato che attesti maturità. Sono i nomi importanti, e il crampo impanicato da lume di candela con i fantasmi del passato a suggerirlo.
E soprattutto il piano definito e spettinato, che è il vero scheletro nell’armadio. E in tutto il tuo pensare e le tue innumerevoli domande (Dov’è che vai? Dov’è che sei? E poi, ma con chi sei?) , ci metti anche che è proprio un peccato ricordarsi solo un po’ di solfeggio, perché quelle note meritano qualcuno che ci si butti a piene mani e con l’anima tra i denti.
Epifania alla Joyce, insomma, che in un modo o nell’altro ci sta sempre come quella storia che le persone non le cambi, che tocchi il massimo e poi scendi.
Un pizzico di sale, una spruzzatina di tabasco e una fetta di limone, grazie.