Once upon a time in… Hollywood, Tarantino all’apice del postmodernismo
Ciò che apprezzo maggiormente in Quentin Tarantino (che poi è ciò che molta critica e pubblico non apprezza per nulla) è stata la sua capacità di reinventarsi rimanendo fedele a se stesso. Esiste, infatti, una prima stagione di film (da Le Iene fino a Kill Bill) in cui Tarantino si è dimostrato un brillantissimo idiot savant. Senza offesa alcuna: avercene di idiot savant come lui!
Ed esiste poi un Tarantino successivo e diverso, che da Inglorious Basterds prosegue la sua maturazione intellettuale fino a Once upon a time in… Hollywood. Questi due Tarantino mantengono una continuità nella forma e nel gusto per un certo di tipo di cinema e di messa in scena, grottesca, violenta, e tanto iconica da essere diventata un aggettivo. Divergono, invece, o meglio evolvono nella concezione stessa del cinema, che possiamo (e dobbiamo) definire postmoderna.
(Nota a latere: perché in nessuna critica ai suoi film si legge più di “postmodernismo” dai tempi di Pulp Fiction?)
Il primo Tarantino intende il postmodernismo nell’arte cinematografica come sincretismo di generi e di situazioni. C’è già la destrutturazione del tempo della storia in un eterno presente, ma solo nella seconda parte della sua carriera questo concetto verrà portato fino alle estreme conseguenze, insieme alla presa di coscienza che non solo si può destrutturare un racconto, ma finanche la Storia con la esse maiuscola stessa.
Parafrasando le parole di Fredric Jameson, il postmodernismo è una cultura che da un lato privilegia unicamente il presente: la rimozione del “lungo termine” si estende sia in avanti che indietro, cancellando o riscrivendo tutto in funzione dell’attuale; dall’altro, è una cultura piegata alla nostalgia ed alla retrospezione. Da qui il recupero da parte di Tarantino dei modelli passati: lo spaghetti western, l’horror classico, le commedie ed il cinema degli anni sessanta. E la sua destrutturazione della Storia, in funzione del racconto che ne vuole fare. Non importa se antistorico, basta che il momento attuale (il racconto) funzioni: così Hitler può morire trucidato in un cinema e Sharon Tate può venire salvata dalla sua morte atroce.
Alla luce di questo, molte critiche al suo ultimo film suonano superficiali e ridicole. Non serve essere degli esperti di arti marziali per sapere che Bruce Lee mai avrebbe accettato di combattere solo per dare sfoggio di tecnica, come invece nel film accade. Ma non è la storicità di Bruce Lee che viene ricercata, quanto il suo ruolo nella storia che si vuole raccontare: pur inserita in un contesto storico-realistico di cornice (Lee era davvero ad Hollywood ad insegnare coreografie in quegli anni).
Su questa base di postmodernismo, nasce Once upon a time in… Hollywood, l’ultimo film di Tarantino. Un film sulla finzione cinema e sulla sua magia. Nella finzione dell’arte-cinema, infatti, tutto è possibile e possiamo essere chiunque (proprio come il protagonista Rick Dalton) fino alle sue più estreme conseguenze. Il cinema è l’arte postmoderna per eccellenza, perché prevede una unità inscindibile di tempo e spazio -la sala cinematografica- (da qui la volontà di girare The Hateful Eight in un formato che solo al cinema si potesse vedere nella sua interezza). E in questo momento-luogo postmoderno tutto può succedere. È finzione, non Storia, ma una finzione che può creare catarsi.
Proprio su questo binomio realtà/finzione, Tarantino costruisce i suoi personaggi e le loro interazioni. I due protagonisti, interpretati da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, ne sono il perfetto esempio. Di Caprio è un attore al tramonto, incapace di capire il nuovo cinema, lagnoso e dedito all’alcol (realtà), che nella carriera ha portato sullo schermo personaggi forti, cowboy senza paura ed eroi di guerra (finzione). Suo partner di vita è la sua controfigura interpretata da Brad Pitt, che nella vita incarna gli ideali dell’uomo integro e macho che porta sullo schermo (un vero cowboy urbano), ma al contempo alberga istinti violenti e (forse?) omicidi. I due protagonisti si fondono nel perfetto uomo postmoderno: incapace di evolvere, dedito alla nostalgia per un passato vagheggiato come migliore rispetto ad un presente/futuro in cui non albergano speranze (“fuckin’ hippies”). Mi sembra una buona descrizione della nostra società ed in particolare del cinema/tv odierno: sentiamoci tutti chiamati in causa!
Di parallelismi analoghi è pieno il film, che prosegue per accostamento di coppie antitetiche: i vicini di casa di DiCaprio, la coppia Tate/Polanski, che rientrano con la loro macchina fiammante e la loro vita all’apice, speculari e paralleli ai protagonisti; le figure femminili che possono essere muse ispiratrici (Sharon Tate) o tentatrici (le Manson’s girls) – ruoli che regaleranno a Tarantino qualche accusa (non ingiustificata) di maschilismo. A svelare questa frattura fra realtà e finzione è proprio il cuore del film, con le bellissime sequenze in cui la Sharon Tate della finzione (sempre splendida Margot Robbie) guarda ammirata la Sharon Tate vera in un film dell’epoca (finzione dentro la finzione), in quello che è un incredibile cortocircuito cinematografico.
Rimane sempre in Tarantino la voglia di mescolare i generi ed i temi, come già avveniva fin dall’inizio della sua carriera. Crea così alcune sequenze che sono a tutti gli effetti film-nel-film, di generi diversi, incorniciati in una grande commedia. Oltre alla già citata sequenza di arti marziali, abbiamo un vero e proprio mezzogiorno di fuoco western, quando Brad Pitt si reca alla fattoria abitata dalla Manson’s Family e decide di parlare col proprietario, vecchio produttore di Hollywood (Bruce Dern). Ugualmente, il western “moderno” interpretato da Di Caprio è una parodia del western stesso, quasi oltre lo spaghetti western all’italiana. In questa parte, Di Caprio trova anche la possibilità di fare il verso a se stesso, di ridere dei meme nati da Inception, recitando (apposta) male e rifacendo il chiave parodistica alcune di queste espressioni (gli occhi a fessura, per intenderci). Non a caso, la memetica è uno dei linguaggi più caratteristici del nostro mondo (non solo per nerd, ma come è noto anche in politica).
In Once Upon a Time In… Hollywood non manca infine lo spazio per le ossessioni di Tarantino, che ormai sono anche il suo marchio di fabbrica (o forse vuole che noi pensiamo così, in maniera tale da sentirci al sicuro?): i piedi delle donne, i movimenti di camera ed il McGuffin, questa volta non esplicito ma implicito. Incombe su tutta la vicenda, senza mai essere realmente nominato esplicitamente il ruolo di Charles Manson. Lo spettatore (perlomeno quello americano, qui da noi probabilmente non altrettanto) sa cosa aspettarsi, conosce la Storia, e la Storia è lì nascosta, ma onnipresente, nelle pieghe del racconto, fino allo stralunato finale.
Gli ultimi minuti del film rappresentano infatti lo scioglimento della tensione accumulata dalla conoscenza delle vicende legate all’omicidio di Sharon Tate. In una sequenza onirica che è al tempo stesso antistorica ed irrealistica (e non del tutto chiaro se solo frutto del trip da acidi di Brad Pitt o meno), avviene la catarsi del racconto, ponendo lo spettatore nei panni del giudice divertito che assiste alla pena di morte agli assassini (sempre voluta, come è noto, dall’opinione pubblica). Per Manson il gesto che avrebbe segnato per sempre la storia del cinema e dell’America era un attacco all’establishment hollywoodiano dell’intrattenimento, a quella élite corrotta che aveva potere su tutto e tutti. Per noi è una grottesca scazzottata (con tanto di Snoopy Vs. The Red Baron sparata nelle orecchie) dove gli eroi di sempre vincono l’ennesima battaglia ed ottengono il meritato premio: accedere al successo e alla fama di quel nuovo mondo, varcando un cancello che fino ad allora era completamente sbarrato.
L’eroe esce di scena usando la sua battuta-firma e tutto può ricominciare.
Titolo originale | Once Upon A Time In… Hollywood
Regia: Quentin Tarantino
Anno: 2019
Cast: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino, Timothy Olyphant, Emile Hirsch