Ogni Paese ha una sua Venezia | Udaipur
Per l’Olanda è Amsterdam. Per la Francia, Colmar. Il Portogallo si vanta di Aveiro. La Croazia offre Rovigno – che però non vale perchè faceva, fino a non moltissime decadi fa, effettiva parte della Serenissima. Bastano, però, due canali ben piazzati, un discreto numero di specchi d’acqua e qualche vietta caratteristica per fare di una città Venezia?
Scendiamo dal nostro piccolo aereo a tratta nazionale in un polveroso aeroporto del Rajasthan meridionale, facendoci questa domanda rispetto ad Udaipur…la Venezia dell’India, dicono. La ventina abbondante di gradi – seppur in un Dicembre inoltrato – e l’afa che li accompagna richiamano per un momento le giornate affannose dell’estate veneta, mentre un taxi sgangherato dai finestrini rigorosamente abbassati ci guida verso “la città bianca”.
Nella mente già hanno fatto in tempo a formarsi speranze di bacari, ombre di vino a 1 euro e quell’irresistibile profumo di laguna quando la guida, un elegante indiano di mezz’età che ha vissuto per anni in Germania ed Italia, distrugge i nostri castelli mentali lievemente campanilisti specificando una cosa: certo, Udaipur è la Venezia d’Oriente. Venezia, senza canali nè eleganti palazzi rinascimentali; senza acqua alta e piccioni, ma con monsoni annuali che trasformano ciclicamente il paesaggio; senza gondole ma con placidi elefanti che ne percorrono le strade come semplici, quotidiani animali da soma. Venezia forse vagheggiata da un Marco Polo di passaggio che, lontano indefinite migliaia di miglia da casa, si imbatte in una serie di limpidi specchi d’acqua e viaggia verso casa con la mente. Venezia se Venezia fosse soltanto una serie di laghi – che rispondono ai nomi di Pichola, Fateh Sagar e Saroop Sagar – legati l’un l’altro da ponti e fiumiciattoli che scompaiono e riappaiono a seconda della siccità.
Se attraversare la disordinata giungla urbana di risciò, clacson, animali che si contendono la carreggiata e bancarelle di fortuna con sgargianti, sgrammaticate scritte non è altro che la classica esperienza di un’India contemporanea sospesa ancora tra caos e modernità, raggiungere le rive del lago Pichola fa lo stesso effetto di immergere la testa sott’acqua – o di entrare in una stanza ovattata. Credo sia l’imponente magnificenza del gigantesco, ma aggraziato, castello in marmo che si specchia con eleganza sulle acque sottostanti – punteggiate d’isole artificiali su cui spuntano come candidi corpi estranei altri sfarzosi palazzi.
Il Palazzo della Città – il più grande in un Rajasthan che pur pullula di regge e palazzi rajput – con il suo dedalo di stanze piccole e grandi, dai soffitti bassi, le mille finestre e le intricate decorazioni centenarie, racconta la storia di una stirpe fiera di guerrieri e di supremazia costante su una delle poche oasi di verde in uno Stato altrimenti vicino al deserto – ma anche di una convivenza difficile e bellicosa, un letterale scontro tra civiltà molti secoli prima che fosse coniato il termine “multiculturalismo”. Il risultato lo osservi con la curiosità verso un mondo studiato da troppo lontano per poterlo capire veramente, scavando tra simbologie, storie e leggende. Se cortili riccamente invasi da pavoni di pietre preziose, divinità pasciute e lussureggianti danzatrici di marmo strizzano entrambi gli occhi a centinaia di anni di arte hindu, il rincorrersi di arabeschi e la geometria dei soffitti porta anche qui, nel cuore della resistenza del marahana all’invasione mediorientale, un richiamo nascosto in piena luce del giorno alla sfarzosa arte araba dei Moghul.
L’influsso dei marahana non rimane certo lontano ed estraneo al cuore pulsante della città: se, oltre le altissime mura che proteggono il Castello dal tempo che passa e dalla crudele contemporaneità, può sembrare che lo sfarzo dei secoli passati non abbia toccato più di tanto il tessuto urbano “comune”, tra una bottega stracolma di abiti sgargianti e frutta fresca del centro e l’altra si scova l’influsso di una storia profonda che in India non sembra mai davvero tanto lontana.
Un esempio su tutti è il Saheliyon-ki-Bari, il “Giardino delle Dame.” Oasi di delicata bellezza, questo prospero giardino è costellato di statue di elefanti, piccole pagode e fontane nascoste che contribuiscono a ricreare il rumore rilassante di una pioggerellina primaverile anche nell’arsura del mezzogiorno indiano. Ma se camminare tra distese di fiori di loto e ninfee trasporta – con qualche balzo logico dato sicuramente da un’insana passione per l’impressionismo e scarsa fantasia – magari ad una Giverny trasformata in un sogno orientale da Monet e l’acqua che un po’ stagna sotto lo sguardo impietoso di un sole da 30 gradi ricorda un po’ gli odori di una laguna estiva, la magia delle piccole calli, tra cammelli sonnolenti sul ciglio della strada e palme, non potrebbe essere più distante.
Con buona pace della Venezia d’Oriente.