Nosferatu: A Transilvanian Folktale

Nosferatu: A Transilvanian Folktale

Regia: Robert Eggers | Anno: 2024 | Durata: 132 min.

“L’orrore, l’orrore”
Joseph Conrad

Che cos’è l’orrore? Paura? Ribrezzo? Anche, ma non solo. Queste emozioni sono conseguenza dell’orrore. Il vero orrore è il trovarsi di notte nel bosco, al buio, senza sapere cosa c’è dietro l’albero. Perdere cioè quel senso dell’orientamento – morale, spirituale e materiale – che guida la nostra collettività post-illuministica. Vuol dire uscire dalla comfort zone non come graduale percorso di crescita personale ma perché la macchina si è fermata al buio e la comfort zone ci si è letteralmente sfaldata sotto i piedi. Ecco cos’è l’orrore.

Vi siete mai chiesti perché uno dei cliché più abusati del cinema horror sia quello di una persona che si avventura a casaccio nel buio quando chiaramente questa è una scelta stupida? Hai voglia a scalciare sul divano urlando COSA FAI DEFICIENTE CI SONO I MOSTRI, in quel momento l’orrore è dato esattamente dall’irrazionalità di quel gesto più che dal buio in sé. Una persona nel pieno della sua logicità non farebbe mai una scelta così, ma se una persona agisse logicamente allora saremmo ancora nel campo della normalità, dell’abitudine, della comfort zone, e quindi non si potrebbe parlare di orrore. Nel genere, invece, le carte sono ribaltate: la logica ci tradisce, l’insolito diventa normale, e la bellezza viene deturpata.

Deturpazione della bellezza

Robert Eggers è uno che ha fatto della narrazione di questa perdita dell’orientamento uno dei punti cardine del suo cinema. Che fosse in una foresta brumosa del New England o su di uno scoglio battuto dai venti, le sue storie narrano infatti di come, date le condizioni, le paranoie dei protagonisti possono essere altrettanto pericolose dei demoni reali che pure popolano il mondo. Specialmente nei primi suoi due film (The Witch e The Lighthouse) non è mai del tutto chiaro quanto ciò che accade sullo schermo fosse reale o solo immaginato (e non per questo meno pericoloso): lo spettatore è libero di credere all’una o all’altra interpretazione fino al provvidenziale botto finale che porta tutto a risolversi in un’esplosione di disagio, frattaglie e ciuffi di pelo animale.

Nel suo ultimo film, Nosferatu, remake dell’omonimo film muto del 1922 di Murnau (a sua volta prima trasposizione ufficiosa della storia di Dracula) la domanda se “il male viene da dentro di noi o dall’esterno?” è pronunciata sin già nel trailer, ma a differenza dei suoi precedenti film, questa trova una risposta abbastanza netta sin da subito: il Conte Orlok esiste e combatte insieme a noi.

Non nascondo che questo approccio mi abbia inizialmente stranito: abituato a quel cinema delle suggestioni, mi ero immaginato una storia di vampiri e sogni erotici strani come copertura di una ben più banale e realistica crisi matrimoniale di metà ‘800. Pensavo a un racconto in cui il mostro fosse solo un simbolo, uno sfondo su cui proiettare i malesseri dei protagonisti.

E invece no. La narrazione di Eggers non prescinde mai dalla concreta esistenza del Conte Orlok, onnipresente per tutta la durata del film piuttosto che mera proiezione della mente dei protagonisti. Il mostro è reale, capace di danneggiare gli altri. Eggers non gioca più con l’ambiguità della mente umana come in The Witch o The Lighthouse; piuttosto, le dà un volto, un corpo e un appetito insaziabile. In questo senso, Nosferatu sembra quasi il seguito ideale di The Witch: un’altra storia di repressione femminile che esplode in orrore puro, ma con un nemico più concreto e palpabile, proprio perché la depressione e la repressione che l’hanno generato sono reali, tangibili.

Cuore di tenebra

Germania, 1838. La giovane Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) si comporta in maniera strana, qualche illuminato figlio del suo tempo la chiamerebbe “isterica”, e quando il marito (Nicholas Hoult) deve recarsi in Transilvania per concludere un affare, lei reagisce parlando di demoni, spiriti e sesso. La storia la conoscete tutti: arrivato sui Carpazi, Hoult firma un misterioso contratto con il Conte, il quale si reca in Germania – sotto forma di epidemia di peste – per appropriarsi della ragazza. Parte dunque un inseguimento forsennato tra il Conte e il redivivo marito – accompagnato da due medici (il sempre calmo Willem Dafoe e l’oltretombale Ralph Ineson) e dall’amico Friedrich Harding (Aaron Faccia di triglia Taylor-Johnson) per la salvezza della bella.

E fin qui tutto chiaro, niente di nuovo sul fronte occidentale. Il film è una trasposizione fedele, tecnicamente perfetta ma non particolarmente innovativa della storia già narrata da Murnau e Herzog (oltre che da Coppola e altri mille) fino al quarto d’ora finale, quando i nodi vengono al pettine e Eggers decide di andare all-in ribaltando, o quantomeno mettendo in discussione, il classico approccio narrativo.

Altro pallino fisso di Eggers è infatti quello della donna come motrice e artefice – magari involontaria – degli eventi che muovono la storia, costantemente in bilico tra vittima e causa del male. La pallida Lily-Rose Depp, calzate le scarpe di Anya Taylor-Joy, si cimenta in una prova attoriale non indifferente, reggendo più che discretamente le scene di possessione, quelle di sesso e quelle di stato semi-comatoso in cui il suo personaggio è costretto a vivere.

Proprio la sua condizione di malessere – un bel cocktail di sessualità repressa, depressione, abusi, relazioni tossiche, senso di colpa e patriarcato – è ciò che genera il mostro. Non è il Vampiro che cerca la ragazza, ma Lei che lo evoca – inconsapevolmente – per dare un corpo al proprio dolore. La sequenza finale – che non vi svelerò ora – è sicuramente l’elemento più coraggioso dell’intero film, oltre che quello più divisivo. Sia a livello grafico che metaforico.

Le fleurs du mal

Dal punto di vista tecnico e visivo, il film è ineccepibile. Grazie al suo approccio filologico, Eggers ha la capacità di calare lo spettatore – e la troupe – nel mondo che racconta, facendolo percepire come vero. In un’epoca di CGI, dove gli attori recitano in palestre tappezzate di teli verdi, Eggers preferisce una concretezza che rasenta l’ossessione quando ricostruisci un intero villaggio vichingo utilizzando solo legno e materiali storicamente plausibili (con poca gioia della produzione).

La sua capacità di partire da dettagli insignificanti per creare un mondo che risulti credibile trova il massimo della realizzazione proprio nell’aspetto del Vampiro. Chi è il Conte Orlok? si chiede Eggers. Un nobile rumeno di inizio ‘800, si risponde. Eh ma allora è probabile che fosse un militare, un ussaro delle province orientali dell’Impero Austro-ungarico per la precisione: Eggers sguinzaglia dunque la sua costumista, Linda Muir che ricostruisce per filo e per segno l’uniforme militarmente accurata con tanto di busby, pellicciotto di leopardo, e baffi filologicamente accurati. Con buona pace di Murnau, di Herzog, e di Coppola e il suo Dracula uscito dritto dagli anni ’80.

La stessa attenzione per il realismo si riflette nell’utilizzo degli animali. Dopo aver ceduto alla tentazione della CGI in The Northman, qui Eggers torna alla fisicità: lupi veri che corrono, sbandano e incutono paura, topi che sguisciano in modo caotico, dando corpo e movimento al verbo “brulicare”. La loro presenza sgraziata e imprevedibile li rende tangibili emanazioni di quell’oscurità che ammanta il Conte anziché coreografate suppellettili d’arredamento.

Infine la fotografia, curata da quel genio imbizzarrito di Jarin Blaschke. Se nelle scene in notturna il colore dominante è un bluastro sepolcrale, per quelle illuminate ci si affida alla fioca luce delle lampade a olio dando alle inquadrature un aspetto pallido, sbiadito, quasi itterico. Ci dimentichiamo quasi che esiste la luce naturale del Sole e solo negli istanti finali questa trova violentemente spazio sulla scena.

Paüra

Insomma, non un film immediato. Certamente non ciò che mi sarei aspettato ed è probabile che sarà necessaria più di una visione (preferibilmente in lingua originale) per sviluppare un’idea coerente su questo quarto film di un regista che si conferma essere tecnicamente straordinario, un profondo conoscitore del genere e, soprattutto, una mente non comune.

Al momento, continuo a preferire la sottile ambiguità dei primi suoi due film, con The Witch che rimane uno dei due o tre film che salverei degli ultimi 15-20 anni di Cinema, quindi capisco che il paragone sia comunque impietoso.

Eggers ha dichiarato che questo film ha richiesto una lavorazione di circa 10 anni, avendo iniziato a modellare la sceneggiatura sin dal 2015. Ed è impossibile non riconoscere la grandezza e la cura dell’opera: un film che, pur con i suoi compromessi e i suoi difetti, ribadisce il ruolo di Eggers come uno dei cineasti più interessanti e visionari della sua generazione.

Storia di un matrimonio

Titolo | Nosferatu

Regista | Robert Eggers

Anno | 2024

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