Non mi posso lamentare. Forse.

Non mi posso lamentare. Forse.

Tra le uscite di questo autunno, che sto recuperando con colpevolissimo ritardo, stavo per
perdermi quello che, a prima vista, mi sembrava un libricino dalla copertina poco
accattivante, vuoi per una mia inveterata repulsione per il colore rosa o per la poco
ospitale facciona sbattuta lì, tutta sanguinolenta. A volte è buona cosa ammettere i propri
errori di giudizio, soprattutto quando, aperto il suddetto libro, sono stata talmente tanto
affascinata dalla sinossi che ho pensato avrei potuto scrivere unʼintera recensione solo su
quelle poche parole.

Non mi posso lamentare è lʼultimo lavoro di Paolo Cattaneo, il primo
edito da Rizzoli Lizard, e non è affatto un libricino, perché nelle sue 240 pagine racchiude
tutta lʼesperienza umana di una vita che si sta accomiatando dal mondo, mentre fa i conti
con ciò che resta.

Apparentemente, il titolo mostra una contraddizione difficilmente risolvibile, evidenziata già
nella copertina che solo ora ho guardato come si deve: come si concilia questa frase, “Non
mi posso lamentare”, con lʼimmagine sanguinante del protagonista? E addentrandosi
nelle prime pagine questo pensiero non trova subito una risposta, mentre scopriamo che il
protagonista Danilo, un operaio di fabbrica come tanti, soffre di un brutto male che lo
porterà via entro pochi mesi, a causa del quale non è certo che potrà conoscere il bimbo di
cui è in attesa la sua compagna. È per questo motivo che Danilo sta scrivendo una specie
di diario in cui tramandare qualche frammento della propria storia a questa nuova vita, che
non conoscerà mai, ma che percepisce essere ciò che continuerà la sua esistenza nel
tempo futuro.

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Così cominciamo a seguire Danilo mentre esplora la periferia di Genova tra luoghi della
sua infanzia e nuove scoperte, dove cerca un posto tutto per sé per fumare in santa
pace qualche sigaretta (scopriremo che ha cominciato a fumare solo dopo la diagnosi) e
guardare il mondo con gli occhi di chi, forse, lo sta scoprendo davvero per la prima volta,
colto dalla necessità di trascriverne lʼessenza nelle pagine di un diario.

Ma Danilo non si limita a descrivere i suoi luoghi nei suoi quaderni, disegna mappe, lascia indizi in
contenitori sotterrati, descrive sapori, odori, profumi da ricercare in frutti selvatici, raccoglie
piume di uccelli, scrive messaggi con sassi e legnetti, il tutto per rendere più tangibile e
vero il proprio passaggio in questo mondo per il suo bambino.

La cosa ancora più sorprendente è che, in questa ricerca, tutto ciò che riguarda la malattia
non viene ignorato, ma viene lasciato delicatamente sullo sfondo, uno sfondo che, tuttavia,
a tratti carica la storia di pathos e ansia quando rischia di prendere il sopravvento, come
durante gli incubi di cui soffre il protagonista, o aggiunge sfumature un poco angoscianti al
ritratto spensierato che rischiavamo di farci di Danilo, quando nella sua spietata lucidità
descrive la sua lenta metamorfosi in un “fantasma sciolto grigio”. Anche la fabbrica dove
Danilo lavora, lʼIlva, divenuta famosa nel nostro immaginario per le tante storie di famiglie
spezzate, non diviene il pretesto per una discussione di attualità, ma viene lasciata in
disparte, come una presenza ingombrante ma ineluttabile, incastonata comʼè nel tessuto
stesso del suo quartiere della periferia di Genova.

Un altro elemento che arricchisce la narrazione è la scelta di trascrivere il diario come se
fosse scritto direttamente dalla mano di Danilo, attraverso un italiano colloquiale in un
ordinato stampatello minuscolo, con tutte le cancellature, le aggiunte, le sottolineature e le
personalizzazioni che contraddistinguono un vero testo scritto di getto. Grazie a queste
piccole cose il testo assume una dimensione ancora più familiare e intima nel raccontare
lʼattenzione che il protagonista riserva alla scelta delle parole adatte, alla chiarezza
dellʼesposizione, alla coniugazione dei tempi verbali tra presente e passato nel suo
dialogo immaginario con il figlio. In queste cancellature che aggiungono significato si vede
la cura, si vede lʼamore verso questo bambino non nato e, di riflesso, si vede Danilo stesso e così capiamo in che modo unico sia riuscito a risolvere dentro di sé la contraddizione tra il “Non mi posso lamentare” e la sua condizione di malato terminale.

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Nonostante sia un diario, viene lasciato spazio adeguato a disegni che ritraggono
personaggi molto ben caratterizzati, potrei dire iconici tanto sono particolareggiati e
riconoscibili, grazie a una griglia ampia e ben bilanciata. Molto divertenti sono le
assonometrie che sostituiscono le normali prospettive, quasi a semplificare al massimo lo
sfondo e dare ulteriore risalto alle linee contorte dei personaggi. Lʼeffetto complessivo di
questi accostamenti insieme alla paletta acidissima di pochi selezionati colori privi di
ombre risulta globalmente straniante ed è in questo contesto che spiccano i vari loghi
sparsi qua e là che invece risultano molto familiari ai nostri occhi, come a legare le nostre
esperienze a quelle di Danilo, che dopotutto è una persona come tante.

“Non mi posso lamentare” è sorprendente nellʼumanità che contiene, nel suo confrontarsi
con apparente semplicità a un tema così complesso come il nostro lascito, la precarietà
delle nostre esistenze e i legami che ci uniscono a chi condivide il nostro stesso percorso.
E Danilo riesce a spiegarci tutto questo, tra una passeggiata del cane e una sigaretta
Camel Light, senza mai scadere in un linguaggio retorico o patetico, pur avendone ogni
diritto. La lettura scorre quasi troppo rapida, come troppo rapido giunge, alla fine, lʼultimo
saluto di Danilo, che, privo di qualsiasi risentimento, incrollabilmente continua a
testimoniare il proprio amore.

Titolo: Non mi posso lamentare
Autore: Paolo Cattaneo
Casa Editrice: Rizzoli Lizard
Anno di pubblicazione: 2019

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