Nomadland di Chloé Zhao: l’umanità nomade che cerca se stessa
Siamo abituati a pensare il concetto di “casa” in maniera classica: quattro pareti, un balcone o un giardino, i quadri, i tappeti, la cucina abitabile. Quest’ultimo anno, tuttavia, ci ha insegnato a riconsiderare il concetto di casa, sia in termini architettonici che umani: il luogo sicuro a cui fare ritorno è diventato fonte di isolamento, la protezione è diventata prigione per molti. Sebbene sia stato girato in gran parte prima dell’attuale pandemia, il tempismo di Nomadland, il recente film di Chloé Zhao che sta mietendo premi un po’ ovunque, è quantomeno curioso, dal momento che parla di una umanità che ha rinunciato, per scelta o necessità, al concetto più classico di casa.
La cifra autoriale che contraddistingue la Zhao, a cui ci ha abituati con i suoi precedenti film, è la capacità di mescolare realtà e finzione. I suoi film sono documentari girati come fossero opere di finzione (ma vale anche il contrario), dove recitano prevalentemente attori non protagonisti che interpretano se stessi. La storia, la trama, invece, è opera di finzione. Così come avveniva in The Rider, la vicenda personale dei protagonisti permette alla regista di aprire una finestra su una parte di America poco nota, su una umanità marginale che percorre vite liminali, al di fuori dei normali percorsi.
In Nomadland, Fern (interpretata da Frances McDormand, che insieme a David Strathairn sono gli unici attori professionisti del cast) si ritrova a dover vivere nel suo furgone. Prima viveva in una città mineraria, dove tutto ruotava intorno alla miniera. Alla morte del marito, decide di rimanere lì; la crisi economica, però, fa chiudere la miniera ed il mondo intorno ad essa e lei si trova senza casa (di proprietà della compagnia mineraria) e senza meta. Decide dunque di vivere nel suo van, più o meno attrezzato, e lavora durante il periodo natalizio da Amazon, quando c’è maggior richiesta di lavoratori stagionali e molti di loro vivono in camper e van nel parcheggio vicino allo stabilimento. Raggiunge poi uno strampalato raduno di gente che vive nei furgoni ed attraversa così l’America, dove impara come vivere senza casa e fare la propria casa ovunque. Da qui inizia un percorso che la porta a fare incontri, cambiare lavoro e paese seguendo le stagioni, sempre vivendo nel suo van.
Quello che colpisce del cinema di Chloé Zhao è la straordinaria capacità di mostrare le (vere) vite altrui senza mai giudicare. A parte Fern, gli altri personaggi che lei incontra durante il film non sono frutto di finzione ed interpretano se stessi: veri nomadi, che vivono nei loro furgoni e girano l’America facendo lavori stagionali. Lontano dalla patinata (e fintissima) #vanlife di Instagram, tutta avocado, aurore boreali e coppiette, i personaggi di Nomadland hanno una vita tutt’altro che facile. La regista, tuttavia, si sofferma sulle difficoltà, solo marginalmente. Ugualmente, non è interessata a raccontare la crisi economica o le condizioni dei lavoratori di Amazon, solo accennati e lasciati sullo sfondo. Le motivazioni che hanno condotto i personaggi a vivere una vita nomade non sono l’interesse principale del racconto. Alla stessa maniera non vengono affrontate le problematiche pratiche della vita dei nomadi: dove ricevano la posta, dove votino ecc. Questi aspetti sono marginali e lasciano spazio alla rete di connessioni che i personaggi formano.
Il film è infatti pervaso da una fortissima dicotomia fra solitudine e senso di comunità. Fern rimane da sola, ma non si sente isolata. Fern non ha più una casa, ma questo non la rende una clochard. L’inglese permette di differenziare fra house (la casa fisica) e home (il luogo che consideriamo casa) e Nomadland spiega molto bene questa differenza, già nelle parole della protagonista che si definisce houseless e non homeless, come a ribadire che l’assenza di pareti solide non mina la sua esistenza rendendola qualcosa di meno di un qualunque altro cittadino. I soggetti ritratti in Nomadland creano un grande senso di familiarità e di appartenenza, anche quando sono da soli coi propri ricordi, come (troppo) spesso accade a Fern. Le loro vite sono nascoste, subliminali, ma non scompaiono.
Nel mondo individualista in cui viviamo, rimanere soli e senza un luogo fisico che ci definisca (e isoli) apre una breccia nell’individualismo, da cui filtra l’umanità nascosta ma sempre presente. Non è il messaggio spesso frainteso di (finta) libertà, che molti film trasmettono, ma un ritorno all’idea stessa di comunità umana. Fern scopre lungo la strada una collettività che quando aveva una casa (fisica) non conosceva e di cui non era parte. Una comunità che nel quartiere non esiste più; figurarsi nel palazzo. Tutti i viaggiatori nomadi vivono da soli e così attraversano le grandi spianate deserte americane. Ciò che emerge, tuttavia, è la consapevolezza che lungo la strada qualcuno ci sarà sempre, pronto a scambiare due chiacchiere o a dare una mano nei momenti di difficoltà.
Il film procede così per stratificazione. Sebbene esista una trama (abbastanza) lineare, o per meglio dire circolare come le stagioni ed i lavori stagionali che Fern intraprende, gli episodi, gli incontri, non hanno una consequenzialità stretta. Potrebbero essere montati in ordine differente, senza cambiare il senso del film. Zhao ha curato personalmente il montaggio, oltre alla regia, ed anche questo è funzionale allo stesso sguardo delicato sui personaggi. La regista non giudica mai, anche quando potrebbe (anche quando dovrebbe). Racconta una vita diversa, che scorre sul sorriso sghembo di Frances McDormand, sempre a suo agio in questi personaggi dal guscio resistente, dalla scorza apparentemente impenetrabile.
I dialoghi sono scarni, minimali, divisa fra dialoghi funzionali e brevi finestre sulle vite dei personaggi che si raccontano. La maggior parte delle interazioni è lasciata ai volti, a quei primipiani che la regista alterna ai campi lunghi, come a sottolineare l’immensità dello spazio e la possibilità di solitudine di chi ci vive. Vediamo apparire una sottile linea di demarcazione fra necessità e scelta consapevole (ma davvero esiste questa differenza, in fondo?). I personaggi sono spinti sulla strada spesso per necessità, come Fern, perché perdono il lavoro, per la crisi, per un lutto; decidono poi di rimanerci, nonostante le occasioni per cambiare vita ci siano. Ma si può davvero cambiare vita? Anche a Fern vengono offerte almeno due possibilità di dormire in un letto vero ed avere quattro pareti ed un tetto. Lei rifiuta entrambe, come se in quegli ambienti si sentisse fuori luogo.
Non c’è alcuna critica allo stile di vita medio-borghese nelle immagini di Chloé Zhao: ne è chiaro esempio la visita a una fiera di camper moderni e lussuosi, dove Fern e le sue amiche rimangono realmente stupite dei confort che questi moderni (e costosissimi) camper offrono. Allo stesso modo, la regista non esalta lo stile di vita nomade e solitario, ma si limita a mostrarne alcune caratteristiche, sviluppando la sua riflessione sull’appartenenza a una cerchia umana. Fern non si sente in grado di appartenere più alla cerchia degli stanziali (nonostante apprezzi la comodità di un letto vero). Ha trovato per la prima volta una comunità che l’accettasse ed un ritrovato senso di umanità e mutuo aiuto e decide (ma ha davvero scelta?) di rimanere con questa nuova collettività.
Sullo sfondo di paesaggi sconfinati, Fern sembra sola, ma non lo è mai. Con lei rimane il ricordo, nel quale indugia (troppo) e la certezza che quella comunità su quattro ruote in qualche modo la troverà sempre. Sola, ma mai isolata. In un periodo come questo, dove siamo isolati sebbene iperconnessi, Zhao ci mostra un mondo in cui esiste una forma di fratellanza, in cui emerge l’umanità con le sue caratteristiche più proprie ed intrinseche, quelle sociali, quelle di aiuto e supporto all’Altro. Senza inviti a mollare tutto il capitalismo che ci fagocita e a diventare dei nomadi; senza neppure giudizi sul mondo come lo conosciamo o sul mondo che vive sulla strada; lo sguardo della regista ci mostra un’umanità diversa, ma unita.
Come a dire che le alternative esistono e che quello che conta, infine, sono i rapporti che creiamo.
Titolo | Nomadland
Regista | Chloé Zhao
Anno | 2020