Nimic, il doppio perturbante di Yorgos Lanthimos
Dopo i recenti successi di critica e pubblico, il regista greco Yorgos Lanthimos torna al formato breve con Nimic, uscito da qualche giorno su MUBI, che racchiude un incubo, un sogno, forse un desiderio, sicuramente un grande esercizio di stile. In soli dieci minuti di durata, il regista riesce a porre più di un interrogativo e a far scaturire più di una riflessione.
Innanzitutto, Lanthimos continua la sua strada di “normalizzazione autorale” (si può dire? Boh, l’ho detto) iniziata con The Lobster. I temi rimangono quelli cari al regista, le atmosfere oniriche e rarefatte, disturbanti a tratti, ma l’uso di attori (bravissimi e) noti, riporta il suo cinema dentro una cornice maggiormente mainstream (si può dire? L’ho detto). La lezione che sembra aver ormai interiorizzato è quella che si può fare grande cinema d’autore anche con budget decenti, anche con attori hollywoodiani e visi noti (in questo caso, Matt Dillon). E questa è una cosa, a mio avviso, bellissima e per nulla scontata.
Il cortometraggio parla della sostituzione del violoncellista Matt Dillon da parte del suo Doppelgänger. Ma la maniera in cui il tema viene presentato è quanto meno particolare. Lanthimos fa sua la lezione freudiana sul “perturbante”, inteso come qualcosa di noto (familiare, sia in termini di conosciuto che di domestico, nato in seno alla famiglia) che da un certo momento è fuori posto. Non è solo l’aspetto horrorifico (tante cose creano terrore, poche sono perturbanti), quanto il fatto che emerga da un luogo che dovrebbe essere quello del rifugio, conosciuto in maniera perfetta, come quello della casa. Ma l’intuizione di Lanthimos fa un passo ulteriore: perché il doppio di Nimic non assomiglia al protagonista, in nessuna maniera. Addirittura è di un altro sesso.
La sostituzione avviene di fronte ad una moglie e a dei figli che non sono in grado di vedere differenze fra i due contendenti al ruolo di padre (genitore 1, genitore 2) e culmina nella straordinaria sequenza dell’abbraccio, dove il violoncellista Matt Dillon si rende conto di non incastrarsi perfettamente con sua moglie, mentre la sua Doppelgänger sembra superare la prova. È questo il centro del cortometraggio, posto anche temporalmente all’esatta metà del film. Per Freud, col doppio l’identità si sdoppia perdendo i suoi connotati di unicità. Qui la nozione è portata allo stremo: se siamo solo la somma delle nostre azioni, allora chiunque può sostituirsi a noi. Non esiste alcuna unicità e svuotati di questa irripetibile singolarità cosa rimane di noi? Nulla (Nimic, appunto). E questo, ci lascia intendere il regista, vale per tutti: da qui la possibile circolarità suggerita dal secondo incontro in metropolitana.
Il violoncellista Matt Dillon ci viene presentato solo attraverso le sue azioni scadenzate e routinarie, che poi verranno prese dal suo doppio. La colonna sonora sottolinea questo “ritmo”, quasi fosse un metronomo, e i suoi stacchi improvvisi (la ripetizione delle prove del concerto) accentuano l’aspetto straniante nella prima parte, così come l’aumento dei fish eye e dei grandangoli aumenta lo straniamento nella seconda parte. Se la vita altro non è che una eterna ripetizione (intesa anche come ripetizione di una prova teatrale, reharsal), allora i panni dell’attore possono essere vestiti da chiunque, indipendentemente dal sesso, dal colore, dall’età. È senza dubbio questo l’aspetto più perturbante di Nimic: l’assenza di una qualsivoglia unicità. I personaggi non hanno nome, vengono distinti solo dalle loro azioni che si prestano ad essere svuotate, rendendole mero gesto. Come un’eterna prova prima di un concerto o di uno spettacolo, circolare, cadenzata, che finisce per poi ripartire uguale a se stessa ancora e ancora.
I topoi e i marchi stilistici del regista sono tutti presenti, a partire dai già citata fish eye e dai campi lunghi della prima parte. Matt Dillon si conferma un attore strepitoso e perfetto per ruoli stranianti come questo. È affiancato dalla vera sorpresa del corto, la bravissima Daphne Patakia, la cui mimica fissa perturba ancora di più animi e menti.
Lanthimos crea un piccolo mondo chiuso su se stesso e al contempo portatore di un messaggio universale e tremendo. Un esercizio di stile di appena 10 minuti, che conferma la capacità del regista di rimanere fuori dagli schemi sia in termini di idee che di messa in scena.