#GiveMe5 (Nick Cave Edition) | vol.166
Andrea, il mio migliore amico, non è persona che parli molto.
In questo senso è una compagnia molto sfidante per uno come me, che ha letteralmente terrore delle pause tra le persone e si sente costretto a riempirle. Tutte, e sempre.
Lui mi lascia fare, credo anche abbastanza divertito davanti allo spettacolo d’arte varia di questo adulto di un metro e ottantacinque che arrossisce, suda, si sbraccia, ripesca ricordi dalla memoria per modellarci storie nuove. Poi, dal niente, mentre io collasso nell’ansia da prestazione, tira fuori qualche considerazione impeccabile su un film appena visto (non avete invidia di quelle persone che riescono a mettere in fila frasi rotonde e perfette anche a voce? Io sì) o una killer line istantanea.
Una di quelle che ricordo con più gusto riguarda Patti Smith.
Gli venne fuori fulminante qualche anno fa, mentre consideravamo insieme la mesta piega che avevano preso il discorso pubblico e l’opinione condivisa su un’ex icona punk di cui ormai si parlava in termini di santità. L’ennesima icona decontestualizzata, disinnescata e infine resa innocua nonnina buona per tutte le stagioni: niente di più lontano dalla realtà, se ancora in questi anni l’avete vista ruggire, sputare, bruciare rock’n’roll da un palco.
Fu allora, credo, che Andrea se ne uscì con la definizione di Patti Smith come “Serena Dandini del rock”, che mi fece letteralmente cadere dalla sedia per le risate e poi riflettere sul fatto che in quest’epoca plasticosa, per poter apprezzare qualcuno o qualcosa, ci sentiamo quasi in dovere di ripulire tutto e togliere a qualunque modalità espressiva ogni minima zona d’ombra, stortura o scomodità (con l’effetto collaterale per cui il male vero, invece, sembra potersi permettere tutto).
Una gentrificazione artistica che negli ultimi tempi è stata applicata a uno dei più grandi autori di canzoni a cavallo dei due millenni, Nick Cave. Non si spiega diversamente – o almeno: io non me la spiego – l’approvazione plebiscitaria e monocromatica che oggi riscontra ogni nuova uscita del Re Inchiostro, indipendentemente dalla qualità. Per Ghosteen, pubblicato in questi giorni, si è messo in moto lo stesso meccanismo.
I miei due cent? Un bel lavoro costruito su tastiere e pianoforte, emozionale e molto sentito (quel falsetto soul sorprende per davvero), con alcune ottime canzoni di sicura presa melodica e superiore agli immediati predecessori – Push The Sky Away e Skeleton Tree li trovo scialbi, per ragioni diverse – ma lontano eoni dal fulgore dei tempi d’oro.
E va benissimo così. Non avrebbe senso desiderare altro, ora che il Nostro ha 60 anni e dopo il dolore nero degli ultimi (la morte del figlio, raccontata in un documentario impressionante come One More Time With Feeling), che lo fa sembrare oggi un vero sopravvissuto – e pensate a quant’è amaramente ironica questa affermazione per Nick Cave, uno che pareva un sopravvissuto già trent’anni fa.
Eppure, anche la copertina inguardabile di Ghosteen – grondante new age di grana grossa – ha iniziato a circolare accompagnata da un tripudio di “capolavoro”, “preparo i fazzoletti”, “eccetera”.
Come se bisognasse definire tutto in termini iperbolici, assoluti, per poterlo amare. Come se ogni nuovo ascolto dovesse per forza essere la più scintillante esperienza sonica di sempre – quante volte ci capita di dire “chiudete l’Internet” per mostrare l’apprezzamento di cose scordate un attimo dopo – oppure un orrore indicibile (“Maria, io esco”). Ma le sfumature esistono, esistono i medi e i grigi: sono esattamente quel che distingue un passo falso da un’opera discreta, un grande album da un capolavoro.
E Nick Cave ha inciso decine di capolavori veri, fra il 1984 e il 1990, con i suoi Bad Seeds: pescate a caso da From Her To Eternity a The Good Son, e avrete per le mani assoluta bellezza – se anche voi pensate che la bellezza sia una cosa che non debba temere di mischiarsi al terrore e all’isolamento, all’angoscia e allo schifo. Mi sono tuffato di nuovo in quell’abisso e ne sono uscito con cinque perle tra le tante possibili: provo a raccontarvele.
Sad Waters (da Your Funeral… My Trial, 1986)
o Mary you have seduced my soul
and I don’t know right from wrong
forever a hostage of your child’s world
A Your Funeral… My Trial ci sono arrivato solo qualche mese fa, sapete?
Era l’unico album della golden age di Nick Cave cui non avessi ancora prestato la dovuta attenzione. Non saprei dire perché, ma forse, schiacciato com’era tra mastodonti come The Firstborn Is Dead e Tender Prey, avevo sempre dato per scontato che non avrebbe potuto replicarne la grandezza. Quanto mi sbagliavo.
Il disco fu inciso al picco della dipendenza da eroina di Cave, chiaramente consapevole che il piano inclinato su cui rotolava sarebbe finito in un unico modo. Un rabbrividente intorpidimento da dopo-la-botta avvolge tutta la registrazione, ma è già dalla copertina che si avvertono i segnali di una vita in dissolvenza: non più lo sguardo luciferino dei primi album, ma uno scatto sfocato, gli occhi bassi come a dire “scusate”.
Sad Waters sta in apertura – si potrebbe dedicare un libro intero solo alle opener di Nick Cave – ed è un inizio inaspettato. La chitarra squilla come in un disco garage australiano coevo, ma la differenza la fanno i dettagli d’arrangiamento: le poche, misurate figure di basso; quell’organo che ha il profumo arancio di un ricordo di una primavera di un secolo fa; la voce sdoppiata come in un dormiveglia.
Poi c’è il testo, una cosa talmente bella che non ci si crede: si parla d’amore, ma di volta in volta, a seconda dell’umore di chi ascolta, ci si può leggere il racconto di una distanza da chi un tempo abbiamo amato oppure una fiaba che narra di un omicidio (Mary che ride nell’acqua bassa è un cadavere oppure sono solo la memoria selettiva e il ricordo a far trascendere una storia finita male in un sorriso?).
Al netto delle interpretazioni, però, credo che la grandezza di Sad Waters stia tutta lì, nella capacità di tradurre in note quella sensazione dolorosa dello svegliarsi la notte, allungare il braccio e non trovare più al tuo fianco chi amavi.
From Her To Eternity (da From Her To Eternity, 1984)
this desire to possess her is a wound
and it’s naggin’ at me like a shrew
but I know, that to possess her
is, therefore, not to desire her
C’è stato un periodo della mia vita non particolarmente felice – diciamo intorno ai vent’anni – in cui Il Cielo Sopra Berlino di Wim Wenders era uno dei miei film preferiti.
Un bianco-e-nero esistenziale che testimonia il vagare irrequieto di due angeli fra i pensieri e le emozioni di tutte le persone sole in una città lacerata. A un certo punto, proprio nel momento in cui la pellicola trova il colore, uno dei due finisce a un concerto di Nick Cave che esegue, furioso, proprio From Her To Eternity. All’epoca non la conoscevo, ovviamente: che folgorazione!
E “folgorante” è un attributo più che adatto a descrivere l’esordio solista di Cave con i suoi Bad Seeds, dopo l’esperienza Birthday Party. L’impianto e l’impatto sono quelli del rock sperimentale dell’epoca – nella sua band c’è e ci sarà per un paio di decenni Blixa Bargeld degli Einsturzende Neubauten – ma a questo si aggiungono toni apocalittici e febbricitanti da southern gothic.
Ecco: se volete farvi un’idea di quest’opera senza ascoltarla (ma perché, poi?), il mio consiglio è andarvi a leggere E l’Asina vide l’Angelo, romanzo che Nick pubblicò nel 1989. Ci troverete la stessa palude, lo stesso fanatismo, la stessa visceralità che qualche anno prima il Nostro aveva riversato in strepitanti deliri come Saint Huck (Huckleberry Finn, ovviamente), la cover di Avalanche o Cabin Fever (letteralmente: il suono cigolante dei legni di un galeone guidato da scheletri da cui ancora si vedono pendere brandelli di carne). E in From Her To Eternity, naturalmente.
Sincronizzato al battere dei tamburi, il pianoforte puntella un brano straziato da rumorismi di ogni sorta: seguiamo il protagonista girare in tondo nella propria stanza, sempre più allucinato, mentre ci dice di questa ragazza che vive proprio sopra di lui, nell’appartamento 29. Cinque minuti e mezzo di alienazione, ossessione maniacale e desiderio sessuale inappagato, che troverà sfogo solo in un rantolo licantropo che ben poco spazio lascia all’immaginazione: “then ya know, that lil girl would just have to go!”
Lo riascoltavo oggi, quel pezzo immortale, e mi ha fatto venire voglia di rivedere Il Cielo Sopra Berlino dopo tanto tempo. Curiosamente, mi sono ritrovato a pensare che proprio Ghosteen potrebbe essere una nuova e giusta colonna sonora per quei due angeli e la loro personale interpretazione del concetto di ascolto empatico.
From Her To Eternity, invece, è proprio un viaggio dentro la testa del matto: per comodità, lo chiameremo Euchrid Eucrow.
Tupelo (da The Firstborn Is Dead, 1985)
the black rain come down
oh water water everywhere
water water everywhere
where no bird can fly, no fish can swim
where no bird can fly, no fish can swim
no fish can swim
until The King is born
Se c’è una canzone in grado di mostrare da sola il procedimento compositivo attraverso cui Nick Cave trasfigura la Storia in Mito, quella è Tupelo, mostruosa locomotiva che apre il secondo lavoro con i Bad Seeds, The Firstborn Is Dead. Qui l’autore si immerge nelle acque limacciose del blues per dare una veste tutta nuova alla nascita di Elvis Presley.
Lo spunto è in un pezzo di John Lee Hooker (Tupelo Blues), in cui si narra del tornado che quasi distrusse Tupelo, nel Mississippi, là dove nacque il Re: appropriatamente, il brano di Cave si apre con un violento scroscio di pioggia, per poi gettarsi in una narrazione febbrile e dalle tinte cinematografiche della nuvola nera che s’avvicina, pronta a distruggere.
E naturalmente non è più una semplice tempesta. È la Bestia in persona, venuta a punire i peccati di una città che – ripetizione dopo ripetizione, ringhio dopo ringhio – prende le sembianze di Sodoma e Gomorra: sarà allora Dio a dover aiutare Tupelo (“God help Tupelo!”, ripete a un certo punto Cave, con un filo di voce). Il suo segno è la venuta di Elvis, appena dopo il gemello nato morto (eccolo, il primogenito del titolo).
Il canto di Nick Cave è forse lo strumento più stupefacente, colto in uno dei propri apici espressivi. Spesso è un rantolo figlio di Beefheart e padre di vocalist disgraziati ed espressionisti come David Yow, ma a un certo punto è come se fosse posseduto da Presley in persona – sentitelo ancheggiare su quel “mama rock you lil’ one slow / mama rock your baby”. Un’interpretazione di una maturità raggelante, da un ragazzo di appena 27 anni che sa conferire a un evento e a un luogo specifici – il Mississippi della metà degli anni Trenta – una profondità derivante dall’intera esperienza umana. Come avesse vissuto migliaia di vite, oltre alla sua.
The Mercy Seat (da Tender Prey, 1988)
interpret signs and catalogue
a blackened tooth, a scarlet fog
the walls are bad, black, bottom kind
they are the sick breath at my hind
they are the sick breath at my hind
they are the sick breath at my hind
they are the sick breath gathering at my hind
The Mercy Seat apre Tender Prey nel modo più crudele immaginabile: il terrore – in soggettiva, da dentro – di un condannato a morte che vede avvicinarsi a grandi passi l’ora fatale dell’esecuzione. Un predicare invasato di oltre sette minuti, forse il brano più potente dell’intera epopea di Nick Cave.
Se avete sentito solo una delle straordinarie esecuzioni live di questo classico – praticamente immancabile da ogni scaletta sin dalla sua pubblicazione nel 1988 – vi garantisco che non siete ancora preparati al delirio della sua incisione originale.
La produzione mette in primo piano un impianto strumentale sottile, rumoroso e traballante (in certi momenti sembra incredibile che una canzone del genere possa anche solo stare in piedi in qualche modo), che affoga nel rumore di chitarre e batterie le strofe, rendendo il testo quasi incomprensibile. Raramente, nella storia del pop/rock registrato, un suono è riuscito a dipingere in maniera così grafica una paura che fa perdere il controllo di tutto, consapevole di non poter evitare la fine.
Facile immaginare il condannato blaterare frasi sconnesse con la testa fra le mani, lo sguardo perso nella parete della propria cella; e poi, in uno stacco di camera violento, eccolo seduto sulla sedia elettrica, rasato, collegato alla corrente, in preda agli spasmi davanti a chi lo sta guardando (magari i familiari della sua vittima).
Le immagini bibliche si susseguono – a partire dal titolo, il “mercy seat” dell’Arca dell’Alleanza – e il ritornello si ripete ossessivamente per quindici volte, con minime variazioni. Alla fine, con rigore documentaristico – come si stesse guardando Into The Abyss di Werner Herzog – la musica si schianta, si ferma all’improvviso: ogni volta, ascoltandola, avrete letteralmente l’impressione di aver assistito a una vera esecuzione e che qualcuno, proprio davanti ai vostri occhi, sia morto.
The Ship Song (da The Good Son, 1990)
come sail your ships around me
and burn your bridges down
we make a little history baby
every time you come around
La mia adolescenza deve molto a Eddie Vedder. Anzi: anche se ormai è parecchio che ho abbandonato la flanella e i quadrettoni e il dad-rock, posso dire che gli deve quasi tutto.
C’è stato un tempo in cui giravo i negozi e le bancarelle alla ricerca di bootleg dei Pearl Jam – avevo perfino un libro con le scalette dei concerti e le valutazioni di quelle registrazioni pirata, pensate. A un certo punto, credo all’Ipercoop di Crema (diomio), ne trovai uno con parecchie cover e ovviamente me lo portai subito a casa: dentro c’era una canzone appena abbozzata, indicata come Ship Song, e l’autore era un certo Nick Cave di cui forse avevo letto su una qualche enciclopedia che mi ero comprato. Era minima, malferma, appena una prova, ma per il me ragazzino era magica.
Fu la mia porta d’accesso alla musica di Cave: qualche mese dopo mi comprai lo splendido Live Seeds e quel brano divenne uno dei favoriti miei e di mia madre.
Avevamo un piccolo gioco macabro e consolatorio insieme, all’epoca: sceglierci le canzoni che ci avrebbero accompagnati ai rispettivi funerali. Hallelujah (sua) nella versione di Jeff Buckley durò poco, come To Live Is To Die (mia) dei Metallica; a un certo punto trovammo un accordo proprio su The Ship Song. Non ci abbiamo più giocato – ognuno di noi, credo, ha trovato il proprio modo di accettare la prospettiva della perdita dell’altro – ma anche oggi mi sembrerebbe la migliore delle scelte.
Sa di saudade e nostalgia, quella torch song fatta di piano, chitarre accarezzate, cori e una progressione melodica facilissima (Sol, Re, Do, Sol, Do); sa di amore e redenzione, come tutto quello che si trova tra i solchi di The Good Son, ultimo capolavoro totale di Nick Cave. Uno di quegli album così perfetti e assoluti in cui l’autore è così a fuoco da poterti mostrare di persona le crepe da cui l’ispirazione futura inizierà a vacillare; non importa quello che verrà, sembra dirci Cave: il presente è già un passato prossimo splendente, il futuro sarà inevitabilmente altro.