Il viaggiatore fantasma | Sulla strada della guarigione con Neil Peart
Quando il 7 gennaio di questo funesto 2020 si è diffusa la voce della morte di Neil Peart, batterista della storica band canadese Rush, con Francesco Pandini concordavamo sul fatto che non potesse mancare su SALT un nostro tributo ad un artista di tale spessore.
Ah, i Rush. Quella band di simpatici sfigati canadesi in giro dagli anni ’70.
Per quanto non siano probabilmente mai esplosi, hanno calcato palchi internazionali per quasi quarant’anni, contribuendo alla definizione del progressive rock e di ciò che sarebbe poi diventato dieci/venti anni dopo il progressive metal.
Con la voce stridula ed il basso legnoso e funambolico di Geddy Lee, i riff e i solo settantiani di Alex Lifeson e le prodezze dietro le pelli di Neil Peart, sono stati plasmati pezzi storici come 2112, La Villa Strangiato, Tom Sawyer e The Spirit of the Radio, giusto per citare i più famosi.
Peart, in particolare, ha letteralmente rivoluzionato il mondo della batteria nella musica rock. I suoi fill, i suoi solo, le sue improvvisazioni ed il suo approccio allo strumento hanno ispirato le nuove generazioni di batteristi: da Taylor Hawkins dei Foo Fighters, passando per Mike Portnoy dei Dream Theater (quasi un suo emulo, potremmo dire) per arrivare a gente come Danny Carey dei Tool.
Un musicista che, non pago di quanto appreso e quanto dato ai suoi colleghi ed al suo pubblico, ad un certo punto si è anche messo a studiare batteria jazz con Freddie Gruber, rispolverando l’amore per il suo vecchio idolo Buddy Rich. Questo a cinquant’anni suonati, per intendersi.
Ma ha senso aggiungere ulteriori parole di elogio o ripercorrere ancora una volta la storia e l’importanza di uno dei batteristi più influenti della storia del rock e non solo?
Probabilmente no.
Potrebbe forse essere più interessante parlare del meno conosciuto Neil Peart scrittore.
Le sue capacità in tal senso sono sicuramente note a qualsiasi fan dei Rush, dato che lui, soprannominato “The Professor” proprio per le sue capacità di linguaggio, era anche il principale autore dei testi del gruppo.
Ma forse pochi sanno che una persona schiva e silenziosa come lui possa anche aver scritto dei libri. Io, ad esempio, non avevo mai approfondito questo suo lato, pur idolatrandolo musicalmente da anni.
Neil era un amante dei viaggi, lo era diventato in particolare dopo aver scoperto l’amore per le motociclette. Delle sue scorribande su due ruote scriveva nei suoi diari, che sono stati il punto di partenza per la stesura de “Il viaggiatore fantasma – un anno di moto per ritrovare la vita”, edito da Tsunami Edizioni, di cui scrivo oggi.
L’incipit di questo libro non è dei più felici.
Siamo abituati a pensare ai nostri eroi musicali come a persone distanti da noi e distanti dai problemi quotidiani, ma penso che pochi di noi possano realmente immedesimarsi in Neil Peart, che nel giro di circa un anno ha perso la figlia diciannovenne, morta in un incidente stradale, e la moglie nonché compagna storica, morta di cancro.
Chiunque ne sarebbe stato devastato, ma la personalità particolarmente schiva e sensibile di Neil lo ha spinto buttarsi in un percorso inusuale e catartico per provare ad uscirne.
Mettere in pausa a tempo indeterminato i Rush, abbandonare la casa immersa nei boschi canadesi troppo piena di ricordi, mettersi in sella alla sua BMW GS1100 e partire. Senza mete particolari, senza programmi e senza alcuna costrizione, ma raccontando al suo diario l’esplorazione esterna ed interna che avrebbe affrontato.
Dal Quebec il nostro si sposta nei territori brulli, montuosi e freddi dell’Alaska, per poi tornare nuovamente in terra canadese e scendere lungo la costa ovest degli States, passando per i boschi di Washington e Oregon, le montagne dello Utah, le valli del Nevada e le coste della California, fino ad arrivare in Messico e in Belize.
Il viaggio è raccontato in forma di diario e di lettere spedite a parenti amici, tra i quali Brutus, eterno compagno di viaggi in moto, che, dalla gattabuia in cui è per motivi ignoti residente, come noi può soltanto leggere dei posti e delle avventure vissuti da Neil. Nei suoi scritti, la personalità del batterista è sempre posata e per certi aspetti bambinesca, con nomignoli e scherzi rivolti a se stesso e agli amici che contrastano un po’ con l’immagine del burbero drummer poco avvezzo alla interviste, rivelando un anima molto più sensibile ed emotiva, che non si vede quando è nascosta dietro pelli e piatti.
Peart è comunque del tutto concentrato sulla “strada” che sta percorrendo, tutto ciò che è venuto prima è come se facesse parte di un’altra vita. Quando parla di Alex e Geddy dei Rush, ne parla come di amici e colleghi; i racconti inerenti la band sono solo funzionali alla narrazione, riprendendo viaggi vissuti durante i tour e mettendoli a confronto con quello in corso. La batteria e la musica non trovano spazio reale in quel momento, non possono intralciare il viaggio.
Al loro posto, Neil riscopre l’interesse per il bird watching, per la botanica e per i romanzi, che lo accompagnano in ogni momento, passioni che rivelano un’indole curiosa e giocosa che va ben al di là della “semplice” sensibilità musicale.
Ma il viaggio si svolge lungo la strada della guarigione, che non è priva di lacrime e riflessioni sul trauma vissuto.
Ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà sono punti focali per l’autore, che vede nascere nuovi “personaggi” dalla sua singola persona, con desideri ed istinti talvolta diversi e marcatamente in contrasto tra loro. Primo tra tutti lui, il viaggiatore fantasma.
C’è un momento che potremmo definire topico in questo viaggio, una sorta di momento di passaggio e di consapevolezza: è il periodo natalizio, Neil decide di mollare la moto nel bel mezzo del Centro America per tornare a casa in aeroporto, causa meteo e festività.
Il ritorno non può essere indolore.
Tutte le paure e i dubbi maturati lungo la strada si concretizzano nel momento in cui, arrivato a casa, varca la porta. E non mi riferisco solo alla porta d’ingresso di una abitazione ormai vuota e che non è più “casa”, ma anche alla porta metaforica che segna il passaggio da un momento di ricerca ad un momento di ricostruzione.
E questo evento è suggellato da due parole. Quattro lettere laconiche che sanno di amara ma concreta consapevolezza.
Lo so.
Parte così una riscoperta ed una rivoluzione della casa come dei luoghi che hanno segnato fino ad allora la quotidianità dell’autore, che dà loro un nuovo significato nella sua nuova vita “individuale”.
Ma il viaggiatore fantasma non è soddisfatto. Ritorna in Messico per rimettersi in sella alla sua BMW e riprendere a viaggiare, con un nuovo spirito e con una nuova attitudine.
La sensazione è che lungo la strada Neal sia solo, in realtà è più probabile che si focalizzi sui momenti solitari. Incontra amici e parenti, anche della famiglia della moglie, ma i racconti di questi episodi sono spesso sommari e relativamente sbrigativi. Come se fossero dei momentanei sospiri di sollievo, più che elementi funzionali al viaggio. Addirittura, superato il periodo natalizio, trova il tempo di provare a lanciarsi in una nuova situazione sentimentale, ma con poca convinzione, che porta il tutto a dissolversi come una bolla di sapone.
Il viaggiatore fantasma dunque giungerà mai alla meta finale? I diversi Neil Peart si riuniranno finalmente nella persona che era un tempo?
I fan dei Rush conoscono già la risposta. Dopo la pausa raccontata nel libro, la band ha ripreso a pubblicare album e fare tour, almeno fino a pochi anni fa, fino a quando la salute del batterista non ha iniziato a deteriorarsi.
Possiamo dire che la risposta sia positiva e che l’integrità sarà nuovamente trovata nell’amore e vissero felici e contenti. Ma non tutti lo capiranno e lo apprezzeranno. E le cicatrici inevitabilmente rimarranno.
Cosa rimane a noi di questo viaggio? L’idea di averlo fatto con Neil.
L’onestà e l’intimità messi su carta ritraggono una persona autentica, un amico col quale potremmo aver condiviso decine di birre al pub vicino casa. Un amico che con gusto e con sorriso bonario ci racconta di quello che “vediamo” e “scopriamo” insieme a lui. Una di quelle persone curiose di tutto, che riesce a trasmetterci la sua curiosità.
Va detto, infatti, che il mood del libro non è assolutamente depresso e pessimista. Sicuramente introspettivo e sofferto, con momenti cupi, ma con lo sguardo volto in avanti e rivolto al mondo circostante. Lo stile asciutto e colloquiale fa davvero pensare ad un racconto tra amici, e, in un certo senso, ci immerge ancora di più nella lettura.
Come nota personale, non posso negare che aver letto un libro simile proprio durante la clausura da Covid-19, accompagnandolo con la costante ricerca delle fotografie dei posti visitati e delle mappe dei tragitti percorsi, abbia avuto un impatto su di me ancora più forte. Del resto ho scoperto “Il viaggiatore fantasma” grazie ad una persona che, in un post su facebook in memoria del batterista, lo definiva catartico. E, avendo deciso che un momento storico così particolare fosse quello giusto per “partire”, non posso che dare ragione a questa amica.
Cosa rimane a noi questo viaggio?
Ci rimane Neil Peart, la persona oltre il batterista.
Ci mancherà tanto.
Titolo | Il viaggiatore fantasma
Autore | Neil Peart
Casa editrice | Tsunami
Anno | 2014