Napoli – Una città che ti impone di ritornare
“Ah che città. Che città splendida e significativa. Qua si sono parlate tutte le lingue. Qua s’è costruito di tutto e s’è scassato di tutto”
(“Storia della bambina perduta”, Elena Ferrante)
È in un autunno qualunque che leggendo la quadrilogia de “L’amica geniale” di Elena Ferrante fino a divorarla inizi a provare – se come me non l’avevi mai fatto – il desiderio intenso di vedere, sentire e “verificare” Napoli. In un racconto che ti travolge, infatti, la Ferrante, narrando la storia dell’amicizia femminile tra Lila e Elena (Lenù) catapulta il lettore in un viaggio nella Napoli degli anni Cinquanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. Ed è con questa chiave di lettura che mi ci sono approcciato fin da quando sono sceso dal treno in un caldo venerdì sera di novembre. Cercando negli angoli sporchi la stratificazione di tutti quelli che da Napoli sono passati e invece di disfare per rifare hanno aggiunto. E aggiunto. E aggiunto ancora. Facendo di questa città un crogiolo di architetture, culture, stili e modi di vivere e pensare. Una città di storie e spazi a strati. Sono arrivato a Napoli sentendomi un po’ come quando Lenù, la protagonista del libro, per la prima volta vide il mare pur vivendoci a pochi chilometri di distanza. Stupendomi dell’estate tardiva, degli odori e dei colori diversi.
È difficile consigliare un percorso per visitarla. C’è da buttarsi e andare, magari avendo la fortuna – come è capitato a me – di avere qualcuno del posto che ti guidi e accompagni tra qualche segreto e qualche angolo più scontato. Napoli non è sicuramente una città facile, ma sono fermamente convinto che non si può tentare di capirla senza vederne anche i lati più controversi.
C’è la disordinata bellezza di Spaccanapoli, la strada che va dai Quartieri Spagnoli al Quartiere Forcella. Una linea retta che, letteralmente, spacca in due la città e consente di vivisezionarne il cuore facendo salire lo sguardo sullo stretto orizzonte tra i palazzi. Puoi scendere e salire dieci volte per questa via e, ogni volta, trovare un’angolazione o una prospettiva diversa: palazzi antichi, chiese e odori. Perdersi nelle viuzze laterali è un’esperienza da fare, di giorno, per venire travolti dal profumo del bucato appena steso che unisce le finestre di palazzi talmente vicini che, guardando il cielo, sembrano toccarsi. Spaccanapoli è anche il primo biglietto da visita sociale che la città lascia al visitatore: qui napoletani, turisti e motorini si trovano a dover convivere non sempre facilmente.
C’è la Cappella di San Severo che custodisce la straordinaria e delicata bellezza del Cristo Velato. C’è la Piazza del Plebiscito con la prepotente ombra del Palazzo reale. Il colonnato della chiesa di San Francesco di Paola abbraccia lo sguardo e tra un turista che cerca di catturarlo nella sua interezza con una foto panoramica e dei bambini che giocano a calcio, qui è il posto dove strizzare gli occhi e iniziare a cercare il mare. Giù, in fondo. A destra, a sinistra e davanti. La discesa verso il molo – o meglio, uno dei moli – è un altro dei biglietti da visita di Napoli. Qualche parchetto maleodorante cerca di distrarre lo sguardo da un paesaggio che toglie il fiato. Il Vesuvio che, scendendo da Piazza del Plebiscito, si staglia prepotente sulla sinistra. I rumori del porto e del traffico normalmente folle. La gente che urla, che chiede, che parla, che ti scruta.
“Qua la gente non si fida di nessuna chiacchiera ed è assai chiacchierona. Qua c’è il Vesuvio che ti ricorda ogni giorno che la più grande impresa degli uomini potenti, l’opera più splendida, il fuoco, e il terremoto, e la cenere e il mare in pochi secondi te le riducono a niente”
(“Storia della bambina perduta”, Elena Ferrante)
C’è la Napoli Sotterranea, da fare e rifare. E sottoterra c’è pure la metro che a ogni stazione offre uno stile diverso. Alla fermata Università un architetto egiziano ha realizzato una scultura sui linguaggi digitali, mentre alla fermata Toledo è come essere dentro il plastico di un fondale marino. C’è Castel dell’Ovo che getta il visitatore con lo sguardo al centro del golfo, ammirando dalle sue torri paesaggi e vedute che difficilmente possono essere descritte. L’estate a novembre, da lassù, non è mai stata così vicina. E, ancora, c’è il Duomo, traboccante di ex-voto e fedeli. Al limitare con il quartiere Forcella un grande murales col volto di San Gennaro ricorda ai cittadini e ai forestieri la potenza della tradizione. Del sangue che ritorna ogni anno e di quello che scorre nelle strade per mano dell’uomo. C’è la coda da Starita, fino a tre ore in piedi in balia di auto e motorini in una strada strettissima, per mangiare una delle pizze più buone di sempre serviti da camerieri gentilissimi.
Infine c’è l’altra (e la stessa) Napoli, che non si può non vedere per comprenderne la realtà. La Napoli delle vele di Scampia. La Napoli della Sanità. Il Rione di Lia e Lenù che abbandonavano per andare a passeggiare la domenica lungo il Rettifilo. Le “vele”, palazzoni dalle altezze diverse nei cui cortili scorre a fatica la vita sono il volto del fallimento di un tentativo di rinnovamento architettonico dall’alto. Un quartiere che nasconde e allo stesso tempo sbatte in faccia le profonde disuguaglianze che caratterizzano questo territorio. La Sanità è il quartiere più basso e che spesso più attrae. Buio e magnetico, l’ho attraversato a bordo di un auto nel tardo pomeriggio. I motorini a destra e a sinistra. Le finestre tutte vicine. Diffidenze e accoglienze. È come entrare in una caverna sentendosi addosso tutto il peso della città che, in fondo, chi vive qui sa di dover sostenere quotidianamente.
Vedi Napoli e poi muori, dicono. Sì, muori dalla voglia di ritornarci perché più la guardi più sembra sfuggirti. E provi l’irrefrenabile desiderio di continuare a capirla. O almeno provarci.
[…] storia che Napoli sia tutta pizza, sole e mandolino è una bugia. O almeno una mezza verità. I suoi vicoli sono viscere oscure impossibili da disgorgare. Chi ha […]
[…] A Napoli, all’ombra delle vele di Scampia, da quasi dieci anni sta crescendo una realtà che (ri)dà speranza. Protagonisti di questa storia sono due giovani sposi ventisettenni: Rosario Esposito La Rossa e Maddalena Stornaiuolo. Due giovani che non vogliono in alcun modo essere chiamati eroi. Due giovani che si definiscono “amanti della città, patrioti ma sicuramente non eroi. Noi non siamo contro. Siamo per. Ed è molto differente!”. […]
[…] da un presupposto: in confronto all’India, Napoli è una grande, tranquilla ed ovattata scuola guida. Inutile lamentarsi di chi non usa la cintura di […]