Inquieto, in quiete | Musica per un giorno davanti al mare
giorni senza fine, croci lungomare
profughi siriani costretti a vomitare
colpi di fucile, sudore di cantiere
nel cortile della scuola, stese ad asciugare
canottiere rosse, rosse a sventolare
(Baustelle, Il Vangelo di Giovanni)
C’è qualcosa in questa fine dell’estate che non mi lascia respirare: ma io, a differenza di Bianconi, lo so bene che cos’è. È il rimbombare cupo delle notizie che, una dopo l’altra e terrificanti, si accumulano fino a edificare la visione complessiva di un mondo in cui tecnologia, studio e conoscenza non si sono portati dietro anche un’idea condivisa e percorribile del vivere in società, insieme. È un attacco neropece, me ne rendo conto, ma arriva al termine di giorni/settimane/mesi pesanti come macigni, se uno non vuol girarsi dall’altra parte.
Discussioni infinite con antivaccinisti e oppositori delle norme sul Green Pass, prima di tutto. E non parlo dei figli bacati del sovranismo nostrano, quelli posso darli per persi, ma di persone che sostengono, per tutto il resto, di stare dalla mia parte e che hanno però disimparato a leggere e interpretare i segni del reale in un triste analfabetismo di ritorno – inutile snocciolare dati incontrovertibili sull’efficacia dei vaccini: perfino l’Istituto Superiore di Sanità non rappresenta più un’autorità di cui fidarsi, nell’era della disintermediazione totale.
Uno sterile ribellismo, figlio della noia e del benessere tutto-e-subito e non di un sano pensiero critico – la mia libertà comincia all’ora in cui posso fare l’aperitivo – ben riassunto da Marco Revelli sul Manifesto: “espressione della rottura di ogni principio di responsabilità verso gli altri, del loro ben più sostanziale (e costituzionalmente sancito) diritto alla salute e alla sopravvivenza, come se […] ognuno si ergesse nella propria solitudine sovrana al di fuori e al di sopra di ogni legame sociale”.
Intorno, fuori, il mondo è in fiamme, il mondo esplode. A guardarle dai nostri schermi, un anno fa pareva che le immagini dei roghi boschivi arrivassero dallo spazio profondo e non dall’Australia; ora, invece, nell’estate più calda che gli strumenti a nostra disposizione abbiano mai registrato, “piangiamo gli oltre 20mila ettari di territorio, boschi, oliveti e campi coltivati bruciati in Sardegna a luglio, nella zona di Oristano, dove sono quasi 1.500 le persone sfollate”.
Dallo stesso articolo del WWF è il caso di recuperare una mappa che dà l’idea delle dimensioni di un fenomeno globale che interessa tutti i continenti e si spinge fino a raggiungere Siberia e Alaska. La crisi climatica non attende da qualche parte fuori dal nostro giardino dorato: ha già aperto la porta di casa e si è accomodata in salotto. Esigere un altro mondo è una necessità pratica, oltre che un dovere morale.
Già, un altro mondo possibile. A luglio cadeva pure il ventesimo anniversario del G8 di Genova, strade colorate stracolme di miei coetanei – all’epoca avevo 17 anni, e con gran rammarico non vi presi parte – che, al suono di uno slogan che attraversava proteste in giro per il mondo, chiedevano ai potenti della Terra un cambio di rotta deciso, denunciando già allora lo strapotere delle multinazionali e la devastazione ambientale. A riguardare oggi a quei tempi si può dire solo che avevamo ragione e nemmeno sapevamo quanto; eppure, avere ragione vent’anni dopo non conta nulla.
A quella richiesta di un’intera generazione, il potere rispose con una violenza inaudita, ammazzando un ragazzo di vent’anni e menomandone a decine per sempre: “Quel rovesciamento momentaneo dei codici democratici ha modificato per sempre il rapporto degli italiani con la vita politica e l’impegno sociale”, scrivevano su LeMonde. I processi sono andati avanti per più di un decennio alla ricerca della verità per le vittime, ma il resto del mondo ha dimenticato in fretta: era l’anno dell’undicinove, quello.
E ora siamo qui ancora una volta attoniti, noi che c’eravamo allora, che occupavamo i binari della Centrale di Milano e che dell’opposizione all’intervento militare in Afghanistan avevamo fatto una nuova bandiera – con le altre ci stavamo ancora medicando le ferite. Attoniti, sì, di fronte alla caduta di Kabul, al ritorno dei Talebani e all’insipienza e all’immaturità di una politica incapace di elaborare risposte adeguate a un mondo complesso – quattro amministrazioni americane consecutive, repubblicane o democratiche che fossero, non hanno trovato un’idea migliore di uno state building che ha fatto deflagrare una polveriera con l’avallo dell’intera comunità internazionale, Italia compresa.
“Una generazione di afgani e soprattutto di afgane è cresciuta sotto questo “ombrello” americano e occidentale, con l’idea che tutto fosse ormai possibile. Una ragazza poteva scegliere se indossare il burqa o meno, così come poteva sposarsi in base alla propria scelta e decidere in merito alla propria sessualità. Questo sogno oggi va in frantumi, con il tradimento di tutti gli afgani che avevano creduto in questa promessa disastrosa” (Pierre Haski): e quelle che per ora sono immagini tragiche ma distanti di persone che muoiono nel tentativo di fuggire da una vendetta annunciata, diventeranno quotidianità per noi, qui, molto presto.
Perdonatemi se – nei giorni in cui piangiamo la morte di Gino Strada, uno dei pochi per cui le parole corrispondevano alle azioni – non sono ottimista riguardo alla capacità dei governi di prendersi carico di questa responsabilità.
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Non ho voglia di dirlo in un altro modo: gli unici momenti in cui non sento la testa che scoppia al pensiero di queste atrocità è perché la sto nascondendo sotto la sabbia, convinto che chiudendomi la porta alle spalle possa lasciar fuori l’orrore del mondo, come un bambino che si copra gli occhi con le mani proclamandosi invisibile. Ma non si può, e io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera; però è pur vero che questo articolo nasceva come tentativo escapista e che comunque nessuno al mondo trarrà beneficio dalle mie implosioni.
Perciò, io che ho il privilegio di poterlo fare, devo pur trovare un modo di funzionare, di continuare a non morire: e, come spesso capita, oggi ho trovato pace in una giornata spesa a camminare sul lungomare, col sole che disegnava un arco completo nel cielo e il collo che si arrossava.
Perché sono nato nel mezzo del niente della pianura padana, nella campagna di Call Me By Your Name che ancora amo, ma i miei ricordi ambientali più estatici, quelli in cui mi sia sentito davvero uno col mondo intorno, hanno tutti a che fare con posti davanti al mare. Ho scelto allora cinque album che, col passare delle ore, hanno dato un suono al mio passeggiare a occhi sempre meno bassi: non ci troverete cose troppo ovvie, perché questo non è posto per le enciclopedie ma invece dove si entra in contatto con il proprio sentire; e non ci troverete quasi nemmeno parole, perché ce ne sono già abbastanza, là fuori, e spesso tutte uguali.
Vi invito ad ascoltare questi suoni a volte ostici e più spesso sparsi: forse, a un certo punto, ne vedrete emergere lo stesso miraggio d’estate affaticata che sto affrontando io. E, come è successo a me, può darsi che il prenderne coscienza e dargli una struttura vi aiuti a trovare un po’ di pace per i vostri pensieri.
ADRIANO ZANNI – RICORDO QUASI TUTTO [mattina, molto presto]
Comincia col sole che sorge, questa giornata di mare, al rumore di conchiglie calpestate, spezzate. E comincia così pure Ricordo Quasi Tutto, raccolta di field recordings e droni ipnotici firmata dal fotografo/musicista ravennate Adriano Zanni e concepita nell’estate 2018 tra la sua casa di Marina Romea e l’ospedale in cui era ricoverato. Immagine e suono: una cosa sola per Zanni – “così come scegliendo fra diversi obiettivi posso interpretare e contestualizzare diversamente un’immagine, lo stesso posso fare utilizzando diversi tipi di microfoni registrando il suono di un luogo” (Vice) -, e lo si percepisce distintamente nel fluire delle tracce.
È il paesaggio che suona, in Ricordo Quasi Tutto, e quello che sentiremo lo dicono già i titoli: cani, gabbiani, mare e nebbia; paura, fulmini e saette; scogli, fuoco e notte; onde sinusoidali, esplosioni e inutili ricordi. A volte, l’unica testimonianza di una presenza umana sembra l’atto stesso della registrazione, effettuata da qualcuno che abbia scelto di testimoniare, per chi verrà, un determinato frammento dello spaziotempo. Unica voce narrante, i tappeti di strumenti analogici e digitali di Zanni, che commentano senza mai farsi didascalici il mondo intorno – il senso di minaccia di un interminabile temporale estivo; gli occhi sgranati e le bocche spalancate davanti ai fuochi d’artificio; un’immersione autunnale in acque gelide; il crepitare di un fuocherello su una spiaggia.
Meraviglia psicoacustica che conforta nonostante l’immanente senso di sgretolamento – ma ogni ragionamento artistico che includa il tempo non può esserne immune – Ricordo Quasi Tutto ha la capacità di risvegliare i sensi come un intenso esercizio fisico. Chiedendo esplicitamente al corpo di “riconoscere tutti i suoni, per poi dimenticarli”.
STEVE HIETT – DOWN ON THE ROAD BY THE BEACH [mattina, verso mezzogiorno]
Riavvolgete il nastro della giornata e immaginate che quella passeggiata all’alba non ci sia mai stata. Anzi, di più: avete tirato tardi, la mattina; allora scostate le tende per far entrare giusto un po’ di chiaro, ma l’impatto con il bianco del pieno giorno è travolgente. Ecco: Down On The Road By The Beach di Steve Hiett sembra proprio suonato con quella luce negli occhi – e infatti quel che fiorisce in questi solchi è un sound sorpreso, abbagliato, dal sorriso frastornato. Fenomenale quanto la sua origin story, tra le più singolari che abbia mai sentito.
Steve Hiett era sì un chitarrista, ma si fece un nome grazie alla fotografia: restano famosi i suoi scatti di Beach Boys, Miles Davis, Doors e Hendrix; passò poi a collaborare stabilmente con Marie Claire e Vogue, anche se non abbandonò mai la sei-corde. Nel 1982, i curatori di una sua personale a Tokyo gli chiesero di allegare al catalogo della mostra anche un 7” di musica originale; alla Sony piacquero così tanto, quei pezzi, che gli chiesero un disco intero. Fu il suo unico lavoro da musicista: inciso con la collaborazione dei giapponesi Moonriders e di Elliott Randall, Down On The Road By The Beach è un diamante grezzo e, fino a poco tempo fa, mai pubblicato fuori dal Giappone – l’edizione in vinile è strepitosa, mi dicono.
Quaranta minuti che non avranno seguito, ibrido singolarissimo di pop e rock’n’roll però con intenti ambient – e infatti ci ritroverete più di un’eco nell’indie dei nostri tempi, dai Deerhunter a Cassandra Jenkins. Un album di rilassatezza e coolness straordinarie, che comunica moltissimo anche quando sembra non ci sia altro che il soffiare del vento sulle corde.
POPULOUS – STASI [pomeriggio, persiane abbassate]
Stavo a Otranto, qualche settimana fa, e pensavo a quanto sia diversa dalla mia la vita di chi si trovi a nascere in un posto come quello – se la prima cosa che ho sentito io uscendo di casa è stata la nebbia, non riesco a immaginare che persona potrei essere se, al posto di quella, avessi invece trovato il blu a un passo dalla mia porta. Stasi – con il suo muoversi suadente tra musica ambientale, trip-hop e psichedelica – è un lavoro che solo una persona nata con il mare in faccia avrebbe potuto concepire, e conferma ancora una volta il gran talento del salentino Populous, a poco più di un anno di distanza dallo statement queer di W.
Otranto, dicevo, con il contrasto tra le tonalità d’azzurro dell’Adriatico e il bianco intenso di Piazza del Popolo: è quello il setting ideale per l’ascolto di poco meno di tre quarti d’ora di musica circolare e incantatrice, che – proprio come accade sempre con l’elettronica strumentale di qualità – riesce a trasformare semplici titoli in un’idea di suono, senza che nulla vada perso nella traduzione. Sin dalla scaletta – Orizzonti Bagnati dell’Adriatico, Meditazione Urbana, Vita Lenta -, Stasi mantiene esattamente la promessa di “un disco scritto e prodotto in un Salento fermo, svuotato, immobile” (Repubblica); lontano dalla dance e vicino alla drone e all’ambient – vero perno di questa selezione -, ha l’aspetto di una meditazione elettronica solitaria scritta con una brezza calda e salata sulla pelle.
Otto tracce che ricordano la strana sensazione che il ritorno al movimento di questa estate sta portando con sé dopo tanto tempo senza prospettive. Musica che colpisce anche a basso volume, perché coglie in pieno lo spirito del tempo: rallentato, incerto, la ripetizione come unica ancora di salvezza.
THE AVALANCHES – SINCE I LEFT YOU [sera, vento fresco]
La prima cosa a sconvolgere di Since I Left You – anche nella ristampa XL di qualche mese fa con le ciliegine di un artwork re-immaginato, un secondo CD di rarità e un saggio di Simon Reynolds – è l’elenco dei sample su cui si basa: somiglia al bugiardino di un farmaco, e pure uno di quelli impegnativi. Assemblato interamente con frammenti recuperati da dischi sconosciuti, l’esordio degli australiani The Avalanches porta a un livello tutt’oggi insuperato le arti del crate digging – la ricerca di perle nascoste negli scatoloni di vinili di negozi e fiere – e del campionamento: ad ascoltare quest’ora di musica non si percepisce la minima cucitura, quando invece praticamente ogni singolo suono che si nasconde in Since I Left You nasce altrove, in altri tempi e con altre intenzioni.
Leggero come una piuma, l’album è una sequenza di tracce da sballo che si distaccano di parecchio dall’elettronica in voga alla fine degli anni Novanta. Tanto quella si concentrava su bassi e beat stordenti quanto questa sfrutta le frequenze alte per sviluppare groove ariosi che hanno a che fare con la disco e il soul degli anni Settanta e la psichedelia del decennio ancora prima – una sorta di Pet Sounds della sampladelia, semplificando. E vi scoprirete rapiti dalla sequenza delle tracce, perché delicatezza e facilità, qui dentro, non disdegnano mai la profondità emotiva – basteranno, per cogliere la malinconia dietro una gioia apparentemente inesausta, la planata sulle onde della title-track, i sublimi intrecci vocali di Electricity e la notte da tregenda di Frontier Psychiatrist.
Probabilmente il migliore album di un intero genere – anche superiore, per quel che mi riguarda, al leggendario Endtroducing di DJ Shadow – Since I Left You ha ancora oggi i toni rosati di un tramonto speso ad asciugarsi dopo l’ultimo bagno della giornata. Non è un caso che la nuova versione tinga i due dischi di sbuffi fluo – giallo, verde, arancio, rosso, violetto, rosa: in questo capolavoro, colore e suono sono un solo organo caldo.
APHEX TWIN – THE RICHARD D. JAMES ALBUM [notte, l’inizio]
Magari non tutti i momenti sono buoni per ascoltare le due ore e mezza dei Selected Ambient Works vol. II, però l’estate sembra proprio la stagione perfetta per la mezz’ora di The Richard D. James Album, capolavoro d’incomparabile freschezza che quest’anno compie un quarto di secolo e segna l’apice della produzione di Aphex Twin. Tutto, qui, è perfettamente calcolato per raggiungere il massimo effetto emotivo, senza sforzi o scorciatoie: la conferma del genio di un ragazzo che a 25 anni aveva già detto tutto quel che voleva, facendosi nodo centrale di una nuova elettronica tra ambient, techno e IDM – nuova ancora adesso: basta ascoltare Loraine James, per farsene un’idea.
Suona paradossale dirlo di composizioni che portano alle estreme conseguenze il lavoro sulla velocità dei battiti, ma sono sufficienti pochi secondi di 4 per commuoversi: mentre i beat piovono da ogni parte a frequenze demoniache, siamo graziati da una melodia per archi, di contro, celestiale – la stessa grazia che si ritrova in Girl/Boy Song o nel dolcissimo pizzicato di Goon Gumpas. A volte pare di ascoltare un’accesa discussione fra modem a 56k, eppure James elabora un flusso sonoro in ogni istante avvolgente, evocativo – come in quel giocattolone chiamato Fingerbib o nel campionamento di To Cure A Weakling Child che distorce la voce per farla suonare come quella di un bambino alle prese con una filastrocca.
È il principio di una notte passata in spiaggia sotto un cielo stellato, The Richard D. James Album, pietre roventi che man mano rinfrescano mentre un’elettronica da cameretta ipertecnologica eppure umanissima invita a mischiarsi allo sciabordìo delle onde più che ad altri corpi sul dancefloor.
Poi c’era da ritornare a casa, e certo non ho fatto tardi come questi ascolti suggerirebbero; mi mancava solo una cosa da fare, un altro rituale: camminare sul lungocanale Candiano, sul lato del circolo velico, fino al piccolo faro rosso che ne segna la fine. C’era vento, un vento fortissimo – un ragazzino si teneva stretto in testa uno strano cappello come la cosa più cara al mondo: gli ho sorriso per la tenerezza, chissà che avrà pensato lui – ed era tutto il suono di cui avessi bisogno per la notte, l’ultimo che vi segnalo e che per una volta non è un disco.
Mi sono rimesso al volante, finalmente più in quiete che inquieto: è bastata un’occhiata all’infinite scroll di Facebook per rivedere lo stesso orrore di prima, com’era ovvio; per un attimo, però, sono riuscito a guardare il presente con occhi diversi, a gestirlo senza negarlo e senza negarmi. All’infuori del mare, credo non ci sia per me un altro rimedio capace di tanto.
“Promettere costa poco, si dice, se poi non si mantiene l’impegno. E non farlo? Costa ancor meno, praticamente niente, basta girarsi dall’altra parte. Una promessa è un impegno, è il mettersi ancora in corsa, è il non sedersi su quel che si è fatto. Dà nuove responsabilità, obbliga a cercare, a trovare nuove energie” (Gino Strada, Pappagalli verdi)