– (…) Ché poi, tutta questa smania di essere felici e non lo si è mai. Cioè, tu sei felice ma in quel momento non te ne accorgi, non te ne rendi conto. Sai quante volte mi è successo? Ci arrivi sempre dopo; a distanza di tempo, mi sono guardata indietro, ho ripensato a delle cose e mi sono detta “Cazzo, lì ero felice per davvero”. Quando sei felice non lo sai.
– Eh, perché non è che sei felice quando la raggiungi, la felicità. Alla fine la felicità è tutta nella sua ricerca, in quello che fai per arrivarci. No?
– Boh, forse sì.

Ed è quasi come essere felice.

Dodici ore prima di questa conversazione scendevo da una macchina semidistrutta, con il fango nelle scarpe, i documenti della macchina e la chiavetta usb di mio padre con tutta la sua musica tra le mani, e forse un paio di bestemmie tra i denti. Ecco, ho fatto l’ennesima stronzata. Sono tornata a casa per quattro giorni, avrò dormito sei ore in tre notti; mia madre, quanto mi avrà visto? Forse 8 ore ma dilazionate in comode rate giornaliere. E adesso le riporto la macchina distrutta, l’unica che ha. Che figlia di merda.

Mentre il fango è ormai arrivato sulla gonna, cerco di tornare sulla strada e penso che questo è proprio un periodo di merda: perdo persone che non si prendono nemmeno un minuto per controllare di avermi lasciata intera, due nottate in questura nel giro di una settimana (tranquilla madre, non ho picchiato nessuno, almeno non ancora), la mia repulsione per le forze dell’ordine che rimane la stessa da quando avevo 16 anni, l’affitto, le bollette strafatte di steroidi, di nuovo le bestemmie. Ah, mentre scrivo si è rotto il boiler – aggiungere imprecazioni a piacere, qb. Io non lo so se è sfiga, non so se in un’altra dimensione l’altra me si sta ciucciando tutta la mia gioia, fatto sta che mi dispiace, ma non riesco ad essere la gioiosa cogliona che sono. Ecco, così, sui due piedi su cui barcollo da quando ho imparato a camminare, ora non mi verrebbe da dire “Oh, sono felice”.

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Ma cosa significa? Come funziona? Come fai a capirlo? È una competizione, cioè taglio il traguardo e mi danno una coppa? Mi iscrivo ad un workshop di ventordici ore pagato migliaia di euro e alla fine mi rilasciano un attestato? La prendo con i punti del supermercato, ‘sta benedetta felicità? Oppure devo fare come voi, posto due foto su facebook sulla mia fantabolante vita e scrivo una frase del cazzo per rassicurare tutti sulla mia bellissima fintissima purissima levissima felicità? Tutti che vi amate troppo, vi volete troppo, siete coppie perfette, troppo. Troppo, troppo, troppo. Sembrate usciti da quelle foto finte che riempiono le cornici in vendita, quelle dei centri commerciali. Sbandierate al mondo questo amore che ha lo stesso percorso di vita di un mobile Ikea: lo scegliete su catalogo, lo comprate, seguite le istruzioni alla perfezione per montarlo – i veri pro per risparmiarsi la fatica di costruirlo chiamano qualcuno che lo faccia per loro (la leggete la metafora o vi allego la parafrasi?); lo acchittate, ci buttate sopra due robe e bam, foto su instagram e facebook; poi perde di novità, di attrattiva; lo trascurate, si rompe, ma niente panico. Eravate già pronti, ne avevate già ordinato un altro, sai com’è, per sicurezza. Amori economici, pronti all’uso e sostituibili. L’importante non è con chi, l’importante è far vedere di essere felici. Che manica di stronzi.

Troppo bella per essere perfetta. Troppo veloce per essere perfetta.

La verità è che la felicità non si programma, viene quando le pare e di solito ha una data di scadenza. Ma poi torna. È solo che quando siamo felici per davvero non ce ne accorgiamo quasi mai, perché siamo cresciuti con la malsana convinzione che questa bastarda si annunci con una musica in sottofondo, e si palesi, davanti agli occhi di tutti, per far vedere a tutti che sì, finalmente siamo felici. Siamo felici perché tutto gira per il verso il giusto: la famiglia, l’amore, il lavoro. Tutto dovrebbe incastrarsi in maniera perfetta, come una partita di Tetris che ci regala tutti pezzi perfetti. Ma quando?! Per due pezzi che combaciano alla perfezione, il caso te ne butta altri sette a culo, e se vuoi andare avanti in qualche modo devi incastrarli, meglio che puoi. Ma alla fine chi la vuole la partita perfetta? Banale, senza sbavature, senza un accenno di brivido? Chi vuole la serena consapevolezza di una strada dritta senza curve, da guidare a 50 km/h, andatura costante, senza una minima buca che ci faccia sussultare?

– Manu, ti dico la verità: sarò stronzo, ma io alla fine se sto un po’ male, sto bene. Non è sbagliato stare male ogni tanto, eh. È che deve succedermi qualcosa, devo sentire un brivido. Che sia una cosa bellissima, o brutta, ma deve succedere qualcosa. Non voglio vivere nella calma piatta, nell’apatia. Io devo provare qualcosa.

Eppure sono contenta, in equilibrio perfetto tra tutto quello che ho perso e tutto quello che ho scelto.

– (…) E non sai stare da solo, porca puttana. Io ho imparato, sto abbastanza bene con me stessa, non rompo il cazzo agli altri raccontando stronzate e so pesare le parole. Tu no.
– Scusami, avevi ragione tu, ho fatto una cazzata. È che non lo so, io non ci ho capito niente. Forse devo stare con lei, è giusto, forse devo stare da solo. Non lo so, scusa, è colpa mia.

E per Zeus, non cercate la felicità negli altri. Non è la dipendenza viscerale da un’altra persona che vi farà vedere la vita a colori, non aggrappatevi al primo stronzo che passa sperando che vi risolva la vita. Imparate a stare da soli, ad accettarvi come esseri umani, nelle sfighe – che sembra siano sempre più numerose delle gioie, ma tant’è – nel fatto di avere una vita completamente diversa dai vostri coetanei; smettetela di rosicare perché l’ex compagno di università è diventato miliardario inventando i profilattici che si buttano nella differenziata da soli, o perché l’amica delle superiori che pesava 80 chili ora ne pesa la metà, si è rifatta le tette e fa la modella a Parigi. Non è la vostra vita, è la loro. Non è la vostra felicità, è la loro. Non è una cazzo di competizione, non è un premio uguale per tutti.

E allora vaffanculo la macchina semidistrutta, la questura (sempre e comunque ACAB) e il boiler che mi costringerà a docce fredde fino all’arrivo del mio unico eroe, l’idraulico. Mi sono fatta due conti, e alla fine io sto bene: i miei difetti non posso lasciarli sul comodino la mattina, quindi me li porto dietro e ho imparato ad apprezzarli, così come tutte le cazzate che ho fatto fino ad ora e a cui fondamentalmente devo tutto, perché è vero, ti rendi conto che sei stata felice solo dopo, quando ti guardi indietro, e pensavi di essere sfigata e in un periodo no, e invece cazzo, lì eri felice per davvero. E mi sta bene non sapere quale sia il mio percorso, se e quando mi sentirò realizzata, se riuscirò ad essere meno ansiosa, se la smetterò di preoccuparmi di essere all’altezza di qualcuno o di qualcosa, se mi godrò questa cazzo di strada con le curve e le buche – e rigorosamente non a 50 km/h (magari evitando incidenti). Se l’idraulico mi salverà dal congelamento delle ovaie sotto la doccia; se finalmente troverò la figurina di Cutrone. Oh, anche questa è felicità.

E se non so da dove cominciare, tu non chiedermi come andrà a finire. E se non sai da dove cominciare, io non ti chiedo come andrà a finire.

– (…) Alla fine la felicità è tutta nella sua ricerca, in quello che fai per arrivarci. No?
– Boh, forse sì. Che dici, lascio la sciarpa in macchina? Farà freddo?
– Non lo so. Tu portati la sciarpa.

 

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