Motel Voyeur | Gay Talese

Motel Voyeur | Gay Talese

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Manor House Motel, Aurora, Colorado.

Quella notte ero sbronzo, mezzo svenuto in un motel, e giuro su Dio che un uccello aveva sfondato la finestra della mia camera. Fuori ci saranno stati quindici gradi sotto zero e all’improvviso quella bestia, una specie di anatra, era lì per terra, circondata da pezzi di vetro. Evidentemente la finestra l’aveva ammazzata. Se non fossi stato così ubriaco mi sarei spaventato a morte. Non riuscii a fare altro che alzarmi, accendere la luce e sbatterla fuori. Precipitò per tre piani, atterrando sul marciapiede. Alzai al massimo la temperatura della coperta elettrica, tornai a letto e mi addormentai.

(Motel Life, Willy Vlautin)

C’è un motel luminosissimo vicino casa mia che emerge faticosamente dalle tossiche nebbie industriali (quindi sempre presenti, le stagioni non so cosa siano) a lato di una statale nella bassa padana e che mi mette una malinconia nerissima come poche altre cose quando sono costretta a trovarmelo sulla destra ogni volta che torno a casa. L’enorme scritta che squarcia le nebbie di cui sopra non riesco mai a fare finta che non esista e mi dice sempre che la struttura si chiama, diciamo, Candy Motel (censuro il nome reale, seppur altrettanto zuccheroso, un po’ perché ignoro i limiti della diffamazione un po’ perché pubblicizzare a bocca spalancata posti in cui non sono mai stata mi pare sconveniente) e la scritta sul cartellone pubblicitario che lo precede di circa 80 metri fa l’occhiolino al famoso successo letteralcinematografico scioccamente disinibito annunciando ai futuri frequentatori pruriginosi la possibilità di concedersi “53 varianti sul tema”. Melius est abundare quam deficere.

Io mi convinco ogni volta con un certo impegno del fatto che quel teaser citazionista si riferisca ad uno dei miei feticci inconfessabili (inconfessabile fino a un certo punto, evidentemente): la carta da parati. Il mio istinto compromesso mi dice che hanno ben 53 colorazioni e non ho idea di come io possa essere in grado di pensare in loop a tutta questa abbondanza cromatica senza farmi scoppiare le pupille e contemporaneamente tenere salde le mani sul volante. Non lo so proprio. E c’è anche nebbia.

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Lungo il chilometro e mezzo, metro più metro meno, che separa il cartellone pubblicitario da casa mia penso ripetutamente ad esempio a questa stanza con la carta da parati color verde-azzurro acqua delle lagune perfetta per chi soffre d’ipertensione arteriosa e colesterolemia e quella violetto con rosee spruzzate aggiunte sul finale a casaccio per richiamare Pollock in modo un po’ splatter e un po’ cialtrone occupata periodicamente da chi non vede sua madre dalla festa di maturità a base di Pringles alla paprika e credo senza timore che l’avvenente signorina in maschera di pizzo nero simil rococò spalmata proprio in parte alla scritta attizzante mi faccia anche lei l’occhiolino perché non può che essere d’accordo con me.

Il perché la signorina in questione non abbia mai una controparte maschile è una vecchia storia che tutti conosciamo e per una volta forse – dico forse – questo non è neanche il dettaglio che più mi rimbomba insistentemente nella testa causandomi non poco fastidio in tutta questa situazione nel suo complesso abbastanza avvilente per la sua continua e vuota ripetitività.

motel

Non molto tempo fa e libera da qualsiasi condizionamento esterno – anche se in fondo credo che il quasi giornaliero incontro a distanza ravvicinata tra me e il Candy Motel abbia notevolmente spinto la mia curiosità ad approfondire l’argomento e poi sono curiosa da impazzire di una curiosità talmente liquida che credo ficcherei il naso ovunque senza pensarci troppo – ho letto Motel Voyeur, il romanzo-reportage di Gay Talese, padre del New Journalism.

Talese – in questa torbida storia vera, come urla prontamente la copertina – racconta di Gerald Foos, ex riservatissimo proprietario del Manor House Motel in Colorado che, negli anni ’80, spinto da una sempre a mio avviso comprensibile scossa di mitomania autoreferenziale, spedisce a Talese stesso una lettera nella quale racconta di aver un segreto inconfessabile (inconfessabile fino a un certo punto, evidentemente – dello sbrodolamento opportunista dei propri segreti inconfessabili è il caso che ne parliamo, prima o poi): negli anni ’60, quando è proprietario del Manor House Motel di Aurora, sotto il tetto dell’edificio ha allestito senza rimorso una vera e propria piattaforma d’osservazione grazie a dei finti condotti di ventilazione.

Insomma, l’impunito prurito voyeuristico (in stretto legame, sembrerebbe, con l’ossessiva dedizione al collezionismo di cimeli apparentemente inutili) che accompagna patologicamente Foos fin dalla preadolescenza gli ha permesso di osservare attraverso delle grate messe a punto per l’occasione l’intimità di decine, centinaia di ospiti del motel totalmente ignari del loro spudorato protagonismo. Nessuno di loro ha mai saputo di essere stato colto nei suoi momenti di agio e apparente totale riservatezza, i loro nomi nel reportage sono totalmente censurati. Sul come hanno passato il tempo in camera, invece, nessuna censura.

Gerald Foos e Gay Talese
Gerald Foos e Gay Talese.

Da bambino era appassionato di code di topo muschiato. Le classificava in base alla lunghezza.

L’osservazione ha portato alla stesura meticolosa di numerosissime pagine di diario nelle quali Foos poteva riportare dati statistici rilevanti come correlazioni tra, per dirne qualcuna che mi verrebbe in mente così di getto, condizioni socio-economiche di appartenenza e tipo di tessuti per pigiama indossati oppure chi si strucca al 100% prima di andare a letto, le mancine o destrorse? E i calzini bianchi con la svirgola blu del logo sportivo sono indossati prevalentemente dagli assicuratori o dai professori dei licei pubblici di periferia o da che lato del letto dormono i rappresentanti farmaceutici?

Questi trivia me li tengo per la prossima volta perché, ovviamente, Foos riporta ad una prima occhiata quasi esclusivamente abitudini sessuali improvvisandosi il nuovo dottor Kinsey, o più che altro degno erede di Peeping Tom ma con una vista migliore, e di conseguenza il signor Foos inizialmente non è entrato di diritto nelle mie simpatie facendo esplodere la bolla di sapone della mia paranoia già da tempo al limite della sua dilatazione.

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Ragionandoci a sangue freddo a fine lettura dopo aver inizialmente scaraventato il libro contro la parete sentendomi considerevolmente a disagio a causa di tutti i fatti privati di sconosciuti che ho letto, confermo l’iniziale antipatia e il pesantissimo conflitto morale, sì. Ma diciamoci la verità, con Foos ci dobbiamo davvero arrabbiare? In linea generale non saprei.

Per quanto mi riguarda, pensandoci e ripensandoci, ho dovuto ammettere che grosso modo nessun rancore per Foos. È risaputo che il voyeurismo, dopotutto, è l’attività lavorativa non remunerata più vecchia del mondo perché si sa per certo che l’uomo nasce da sempre curioso e un po’ maleducato.

Gerald Foos
Gerald Foos.

L’esperimento di Foos si colloca nel pieno della Rivoluzione Sessuale dei tardi anni ’60 e l’ossessione archivistica dell’apparentemente innocuo albergatore, nel suo essere così curata nei minimi dettagli, ha il suo valore socioculturale da non sottovalutare, mettiamola così. E soprattutto, c’è probabilmente un equivoco di fondo perché quello che Talese ci presenta dopo anni di resoconti e ripensamenti, rielaborando le sterminate schede informative di Foos, per quanto ve ne sia ampio riferimento non è fondamentalmente un libro sul sesso. È un libro sulla noia.



Sulla noia, esatto, noia per chi la vive e per chi la guarda perché, come diceva Eco, la pornografia la riconosci dai tempi morti, dai viaggi in macchina in tempo reale e dagli spostamenti di piano in ascensore non tagliati, dai dialoghi inutili e completi perché il tempo in qualche modo bisogna pure riempirlo. Nel caso del Motel Manor House, si tratta di stanze occupate da ospiti che per la maggior parte del tempo non fanno nulla di particolarmente movimentato e di questo documentario a camera chiusa che Foos attiva senza permesso le parti umanamente più interessanti sono proprio i tempi morti.

Un voyeur è motivato dalle attese; investe serenamente ore infinite nella speranza di vedere ciò che spera di vedere.

Guardando dai buchi delle grate, Foos, nella sua alienazione e misantropia più concreta descrive scene statiche di mogli annoiate che si addormentano davanti alla tv accesa, studenti che telefonano a casa ai genitori mentendo sul reale posto in cui si trovano, coppie sull’orlo di una dolorosa rottura, studentesse nel mezzo di una fuga solitaria, madri che telefonano ai figli sempre troppo lontani chissà dove, i continui viaggi a vuoto dei rappresentanti di prodotti, qualcuno che non riesce ancora ad addormentarsi se non c’è almeno una luce accesa nella stanza, qualcuno che usa le lenzuola come tovaglioli per togliersi i residui di senape dalla bocca, qualcuno che abusa impropriamente del lavandino e se ne vanta, qualcuno che nasconde il corredo di salviette del bagno nella valigia, qualcuno che non dorme proprio maimotel voyeur

In decine di immobilità testimoniate da Foos e rielaborate da Talese c’è da dire che tutta questa umanità normale e sfiancata, da un motel non te la saresti aspettata mai. Ti somiglia quasi totalmente.

Foos spia gli ospiti Talese spia Foos che spia gli ospiti noi che leggiamo spiamo Talese che spia Foos che spia gli ospiti. Chi è più voyeur di chi non è ben chiaro ma la vera colpa non è la curiosità, la vera colpa è non riuscire a smettere di essere così tremendamente interessanti. Anche (e forse direi, soprattutto) nei tempi morti.

Osservate a vostro rischio e pericolo, lo stesso verrà fatto con voi.

 

Titolo | Motel Voyeur

Autore | Gay Talese

Editore | Rizzoli

Anno | 2017

Pagine | 208

 

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