Dove mangiare tapas a Barcellona?
Mosaico di tapas surrealiste: Barcelona
Mi gira la testa quando il tunnel di gomma e ferraglia che collega il ventre dell’aereo con l’aereoporto El Prat mi catapulta nella luce accecante delle nove del mattino. Barcellona, a primavera, è il luogo migliore per (ri)nascere.
Mi gira ancora la testa quando emergo da un altro tunnel, stavolta non di cielo ma di terra, e mi ritrovo su una strada di cui non vedo né l’inizio né la fine e forse per questo la chiamano Gran Via. Mi ripeto un nome, Urgell, che non so ancora pronunciare bene ma è già una litania, unico punto cardinale di questo mio viaggio che è come questa strada: non so dov’è iniziato e non vedo dove arriva. Forse, è che mi gira la testa.
Non sono più le nove, la luce è diventata calda, io la filtro con le lenti azzurre dei miei occhiali, gli alberi con le loro foglie giovani. È già tutto un mosaico, e un po’ me lo aspettavo. Nella borsa ho una piccola miniera di nozioni: Gaudì, Mirò, La Boqueria, Mare Magnum, infilati in una maglia fitta fitta disegnata sulla mappa. Carrer de Villarroel, Carrer del comte Borrel, Carrer de la Disputaciò – pregate per noi – le sgrano una ad una in cerca di un segno. Devo bere, è già un delirio.
C’è una macchia d’ombra davanti a un bar anacronistico all’angolo tra due strade uguali; la tenda recita: “Gelida”. Ci provo. “Una jarra de cerveca”, mi guarda male l’uomo con le mani rudi e il grembiule strisciato del rame di qualche sugo meraviglioso. “Voll-Damm doble malta” ha sentenziato lui. Intravedo sul bancone un otre di ceramica, tanti otri di ceramica, con i piattini sopra para tapar, come da manuale. Ne escono lucentezze di ogni tipo: pimientos, cebollas, aceitunas, boquerones. Non resisto, entro. Una gran caciara di posate, imprecazioni, risate, ordinazioni, cin cin e sono solo in pausa pranzo. Tutto intorno poster ingialliti, piastrelle colorate, menù a matita, calciatori ormai in pensione. Mi sono intrufolata in un tempio e nemmeno me n’ero resa conto.
Non c’è una sola parola, detta scritta pensata, che non sia di purissima dinastia catalana tra quelle mura, figurarsi il cibo. Sì, voglio loro, le olive, quelle olive di una miriade di verdi e di viola che vedo passare nei piatti con le foglie d’alloro. “Olivas cospas”, succose, leggermente tanniche, condite con il loro olio. Mi gira la testa, sempre di più, sarà la birra, sarà il profumo. È l’euforia. Mi ritrovo davanti a un baccalà fritto con i ceci, una zuppetta con butifarra e cipolle brasate, o qualcosa del genere: “calçots con salsa de romesco” mi suggerisce una donna alla mia sinistra, il suo braccio attaccato al mio. Dolcezza delle dolcezze, l’immancabile crema catalana.
Ancora ci ripenso, alle olive, al baccalà, alle vecchie piastrelle, mentre salgo col fiatone una stradina striminzita, al limite tra il fascino e lo squallore del nostro mediterraneo che è fatto di panni stesi e intonaco cadente. Arrivo in cima, mi attende Parc Güell, laberinto extrovertido con gli occhi sul mare. Arrivo in cima e tutto si fa più chiaro. Sposto il fuoco dallo zoom sul dettaglio al panorama in grandangolo: la terra gialla, le maioliche blu, i punti di rosso e di bianco, le palme. Barcellona ha un gusto che a rappresentarlo in un’unica forma è impossibile, le si farebbe un torto. Si può solo assaggiare, un frammento alla volta, come le tapas. S’intuisce il suo sapore, ma non si dice, non si racconta ad alta voce perché è troppo forte, uno sforzo non necessario.
Ci sono tutti gli elementi riuniti a Barcellona. Sono riuniti nell’arte di Gaudì, nelle finestre blu di Casa Batllo come fauci spalancate mai mostruose ma di certo soprannaturali. Sono riuniti nell’arte di Mirò, nelle pance rosse dell’essere umano sulla tela, nelle sei pennellate nere delle stelle infantili, nell’ambizione di creare un segno universale, primordiale. Sono riuniti nei banchi della Boqueria, dove le strade si addolciscono, declinano verso il porto e il suo medioevo, tra le guglie della Cattedrale e i negozi della Rambla.
È l’ombelico della città, il mercato più famoso d’Europa, troppo ricco di storie da raccontare per cedere al turismo. Queso curado che odora di bosco, jamon iberico de bellota sovrano di Spagna, mejillones e frutti di mare d’ogni tipo, dalle ostriche bluastre come le finestre di Gaudì alle piccole caracoles sapide e sudate, cugine povere delle escargot. E poi la frutta – lime, ananas, frutti del drago – e i torroni, sopra tutti, la xixona: miele, mandorle tostate e un retrogusto salato di arachidi che si pianta nella memoria. C’è la Spagna che ha scoperto il mondo nuovo, ci sono i pirati, i poeti, gli schiavi nel caleidoscopio che è la Boqueria.
Scende la sera su questa città che si piace e non si stanca, e a me la testa non gira più. L’ho attraversata verticalmente Barcellona, ho i piedi pesanti e il petto leggero adesso. Si sente bene la vita in questa sezione di costa. Scivolo sulla spiaggia ancora tiepida con le luci alle spalle e il rumore dell’acqua davanti, ma non posso fermarmi. Cerco una musica, oltre la movida di Barceloneta, oltre il porto, dietro il dito puntato di Colombo. Risalgo San Antoni, incrocio la Catalunya intransigente e la Catalunya multietnica del Raval, il profumo delle cucine è meticcio e asfissiante. Fa troppo caldo per arrendersi e vado oltre. Incappo nel rifugio di Picasso e del modernismo catalano, il ristorante liberty “Els Quatre Gats”, ma io sono a caccia di un’eleganza più recente e riacchiappo la musica.
Ingombra all’improvviso lo spazio il Palau de la Musica Catalana, i taxi, gli abiti da sera, i giapponesi con le Canon. Sono già ubriaca di tutto questo, quando approdo finalmente in una microscopica oasi per gastronauti: “El Bitxo”. Il naso pizzica e la gola si stringe tanti sono i fiori che occupano il locale. C’è ottimo vino sugli scaffali, ci sono trentenni creativi e stranieri sui generis sugli sgabelli, c’è la salsa allioli nelle coppette e il pa amb tomàquet nei cestini di vimini: pane casereccio, pomodoro “rallado”, olio di oliva, sale “y si quieres, jamon”. Piatto elementare eppure tanto identificativo da diventare per antonomasia simbolo di Barcellona, dà il nome persino alla grande festa ciclistica che attraversa la città una volta all’anno, appunto, la Pantumacona.
Col sapore del pomodoro in fondo al palato mi sento a casa, non temo più niente e mi lancio nella pronuncia: “esqueixada de bacallà”, petali di baccalà crudo con pomodoro fresco, cipolla rossa e olive nere, e da bere rigorosamente vermut, vermut e ancora vermut. È tutto il giorno che mi fermo a osservare bicchieri pieni di questo vino liquoroso con le fette d’arancia sul bordo, sui tavolini assolati dove ci si incontra e si sorride, si riprende fiato e si cerca la rotta e mi ritrovo a pensare alla tradizione francese, al nostro fare aperitivo, ai bar spartani di Madrid, e sento che qui non sono lontana da niente di tutto questo.
Non sono lontana dalle fantasiose ceramiche di Lisbona, dalle salite assolate del nostro sud, dal mare commerciale di Marsiglia, dall’asprezza dei Pirenei che proteggono scontrosi quest’appendice di terra. Adesso finalmente capisco che l’identità catalana è fatta insieme di tutto questo e di se stessa. E che Barcellona è la città che non è lontana da niente.
Qualche indirizzo che piace a noi:
Gelida, Carrer de la Disputaciò, 133 (Eixample)
caratteristico bar-tavola calda, ambiente spartano ma delizioso
Bitxo, Carrer de Verdaguer i Callìs, 9 (El Born- La Ribera) https://www.facebook.com/pages/El-Bixto
tapas gourmet tradizionali da gustare in mezzo ai fiori
Palosanto, Rambla del Raval, 26 (El Raval) https://www.facebook.com/PalosantoBcn
ricette tradizionali rivisitate, locale giovane con prezzi bassi e cucina di alto livello
Rekons, Carrer del Comte de Urgell, 32 (San Antoni) https://www.facebook.com/RekonsUrgell
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