Moondog: Il Vichingo della 6th Avenue

Moondog: Il Vichingo della 6th Avenue

Tutto quello che avremmo visto all’angolo tra la 6th Avenue e la 54th Street a New York, tra cravatte e completi inamidati di azzimati Don Draper, sarebbe stato un vecchio con un bastone, un elmo con imponenti corna –  appoggiato sul naso –  e una tunica goffamente assemblata ad un mantello, sulla quale ricadeva una lunga barba bianca. Se avessimo guardato con più attenzione, sotto le folte sopracciglia, le pupille spente ci avrebbero rivelato la sua cecità.

Come un’apparizione da mitologia norrena, un moderno poeta da 25 cent a composizione, vi presento: Moondog.

Figlio delle pianure del Kansas, classe 1916, al secolo Louis Thomas Hardin, ereditò la passione per la musica dai genitori, la madre organista e il padre missionario-predicatore. Stabilitisi in una riserva degli indiani Arapaho, il piccolo Hardin venne introdotto ai rudimenti delle percussioni e ai ritmi dei nativi americani, che lo ispirarono per tutta la vita, grazie al capo tribù Yellow Calf.

A 16 anni, privato della vista da un incidente con la dinamite, come Odino – orbo da un occhio-  rimodulò la sua esistenza sul semplice udito, con l’unico obbiettivo di coltivare la sua poesia e musica. Negli anni 40, con pochi dollari in tasca, ma spinto dalla cieca determinazione a voler “fare una cosa mia, non importa quanto mi costasse in termini di carriera”, arrivò nella Grande Mela. Rifiutando lo spirito calvinista paterno, trascorse quasi tutta la sua esistenza a quell’incrocio, vendendo poesie, suonando e creando composizioni in braille, accompagnato da singolari strumenti di sua creazione come la trimba .

Questo mithrandir, più europeo in esilio – come soleva definirsi – che americano, non volendo esser scambiato per Gesù,  abbracciata la fede pagana e paludato come una divinità scandinava, iniziò a farsi conoscere come: il vichingo della 6th Avenue.

Usò quelle vie come canovaccio e palco delle sue opere. Il traffico, lo stridore dei pneumatici, il tubare dei piccioni, il grugnire dei maiali (Pygmy Pig) le sirene della Queen Elizabeth nel porto, le suggestioni della Fog on the Hudson, il tacchettio sull’asfalto come echi della giungla urbana, ricordano che machines were mice and men were lions once upon a time, but now that it’s the opposite, it’s twice upon a time.

Certamente, perché non aveva l’intenzione di morire in 4/4 ed elaborò lo snaketime, un tempo sdrucciolevole, come il movimento di un serpente.

Si appropriò del jazz sperimentale e della tradizione dei popoli più disparati, ispirandosi a quella  amerindia, giapponese, africana e caraibica. Seguì unicamente le sue ragioni, fondendo generi differenti con il respiro della strada, quasi come un cane che fiuta le tracce.

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Più che Odino a me ricorda Omero. Come l’Iliade e l’ Odissea affondano le radici nell’evoluzione dell’interazione tra composizione e performance, incomprensibili se non grazie alla stratificazione  del linguaggio formulare e la diffusione del sapere tradizionale tramandato dagli aedi, così Moondog prende a prestito il quotidiano di qualsiasi latitudine, ma lo inserisce in composizione classica, rifiutando l’atonalità d’avanguardia.

Un naif alla ricerca di un primitivismo, sincero, immaginativo, senza la connotazione fauvista istintuale, fuori dagli schemi della Sacre du printemps di Stravinskij (suo ammiratore) o quella africana di Picasso con le Démoiselles d’Avignon, con i quali condivise il rifiuto da parte del pubblico. All’apparenza ingenuo e incolto, come la pittura di Henry Rousseau, irto di fantasia, intarsi arabeschi e affollato di spiriti, ma disposti in una congerie ben ordinata, filtrata.

A qualche isolato di distanza dal suo incrocio, c’era la 52nd, la street of jazz, quella che non conosceva requie, baricentro dello swing, in concorrenza con Harlem, perché la street era bianca e a Billie Holiday ricordava le piantagioni di cotone con la sua politica di segregazione. Tuttavia, tra i battenti del Birdland, il bancone nero dell’Onyx e i cocktail annacquati, c’era la musica, quella buona di Lester Young, Benny Goodman, Charlie “Bird”  Parker etc.

Nel ‘52 Charlie avrebbe voluto collaborare con il vichingo, ma morì prima che ciò fosse possibile. Moondog lo omaggiò con il suo pezzo più celebre Bird’s lament.

La sua genialità è condensata in questo breve pezzo, dal tratto preciso e pulsante. Nonostante il sapore jazz, si propone come una ciaccona (componimenti 6-700eschi ispirati alla danza), con una linea melodica suonata da un sassofono contralto, lo strumento di Parker, al quale risponde un sassofono baritono obbligato.

È una marcetta sincopata dal ritmo vivace, fiore all’occhiello che ci sarà già capitato di ascoltare una volta, magari in Pineapple Express/ Strafumati con Seth Rogen e James Franco o il remix di Dj Mr. Scruff, nell’odiato 4/4. Non è mai totalmente jazz, è più un ponte tra epoche e stili diversi. Ricorda l’improvvisazione nei suoi assoli di sax, ma si risolve in contrappunto.

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Uno spirito inusuale, non tanto freak, come poteva apparire ai commoners newyorchesi, ma un canonico eccentrico, fedele alle sue convinzioni e non disposto ad accettare uno stile di vita più lineare.

Apprezzato e riscoperto negli ambienti più disparati dall’ architetto Philippe Starck , a Arturo Toscanini, passando per i Portishead, Bjork, Mars Volta, Jarvis Cocker,  Janis Joplin , viene incluso nella soundtrack del Grande Lebowoski. Giunto in Germania appese l’elmo al chiodo, sostituendo la palandrana con il comodo jersey, convinto di “Maybe, maybe, Maybe someday I’ll be recognized for what I am, before I’m dead and gone; or if not before then, after if at all ”.

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