Montalbano, ultimo atto: ma stiamo babbiando?!
Ho iniziato a leggere Camilleri e il suo Montalbano all’età di 13 anni per pura curiosità, per capire che cosa si nascondesse dietro a quel “Montalbano, sono!” – e non avrei mai potuto immaginare che sarebbe stato l’inizio di un amore/ossessione per il Maestro, per la sua incantevole Sicilia e per tutti i suoi personaggi.
Eppure quella “fine” è arrivata e, quando l’ho saputo, non mi era ancora chiaro se, diversamente dagli altri libri, fremessi dal desiderio di divorarlo o lo avrei affrontato a più riprese per l’amara consapevolezza di essere giunta all’ultimo capitolo di una storia d’amore. Sì. Una vera e propria storia d’amore che, per definizione, è “senza fine”.
Ed è forse proprio questo il senso di tutti i racconti del commissario: la narrazione di un amore – senza fine – per la vita, per il proprio lavoro, per la propria terra, per i suoi frutti ed i suoi sapori, il buon cibo e la buona compagnia, per i risvegli vista mare che non dovrebbero essere un privilegio di pochi.
Montalbano è un inno a quell’uomo che si “catamina” nelle sfide quotidiane della vita imposte sia dal proprio lavoro nella sua amara e amata terra di Sicilia, sia dalla conveniente relazione a distanza con la sua dolce (e amata?) Livia. Grazie alla magistrale arte di “puparo” il Maestro Camilleri si avvale del suo Montalbano (il pupo) per descrivere quelle realtà storiche, dure e scomode, che costringono il Commissario a ricorrere a qualche “saltafosso” per cavarsela. Saltafosso ingegnoso e necessario per superare dei limiti imposti da quelle leggi che poi, così tanto giuste, non sembrano essere. E Salvo Montalbano lo sa bene, ma sa anche che non spetta a lui giudicare né condannare, piuttosto comprendere e accettare anche -e soprattutto- ciò che non si può cambiare.
“Era un omo capace di capiri tante cose che altri non capivano o non volevano capire, debolizze cchiù o meno momentanee, fagliamenti di coraggio, strafottenze, mancanze d’attenzioni, farfantarie, moventi laidi per azioni laide, cose fatte per luffarìa, noia, ‘ntiresse, e via di questo passo. Ma non era capace né di capire né di pirdonare la malafede e il tradimento”
“Montalbano non morirà”, l’ho sempre saputo, continuerà a passeggiare sul lungomare di Marinella “addrumandusi” una sigaretta, nuotando al mattino, godendo del buon cibo, perché “è un personaggio che ormai si è alzato dal divano e che vedo passeggiare accanto a me.”
A distanza di due mesi da quando l’ho ricevuto come consueto regalo di compleanno da parte di mio fratello (compra l’edizione doppia, rigorosamente in copertina rigida seguita dalla prima stesura del 2005) sono riuscita a portare a termine la lettura dell’ultimo atto del commissario. Confesso: l’ho divorato in 16 ore e 24 minuti, velocemente, tutto d’un fiato, come è uso fare quando devi staccare un cerotto (o fai la ceretta)o decidi finalmente di prendere appuntamento dal dentista perché, si sa, “tolto il dente, tolto il dolore”.
Contestualizziamo il momento storico che stavo vivendo: mercoledì (da sempre considerato giorno inutile, odiato più del lunedì), due settembre, fine estate, del 2020 (un anno bisesto, un anno funesto o più appropriatamente “annata bisesta a’ cunta cu resta”: annata bisesta la racconta chi sopravvive, ndr).
Per Montalbano, e per i suoi accaniti fan quali la sottoscritta, la tragedia ha avuto inizio già l’anno precedente, nel 2019, quando, a distanza di neanche un mese, si era spento sia il grande autore siciliano, Andrea Camilleri (padre indiscusso di Montalbano nonché suo eterno alter ego), sia la macchina da presa di Alberto Sironi, regista al quale va il merito aver invitato ogni lunedì sera a cena, per 20 anni, la bellezza di circa 9 milioni di italiani, toccando il record di ascolti pari a ben 11.386.000 telespettatori con “ La giostra degli scambi” il 12 febbraio 2018.
E Riccardino già dalle prime pagine fa percepire tutto quel retrogusto amaro di una preannunciata fine a cui il Maestro, da bravo Tiresia qual era oramai diventato, aveva pensato ben 14 anni prima. Camilleri ci consegna così un’opera geniale, facilmente ascrivibile alla teoria del doppio del suo conterraneo Pirandello o allo shakespeariano play-within-the-play, se non fosse per la scelta della lingua adoperata, il vigatese, lingua eccezionale che non trova alcun corrispettivo nella realtà ma che finisce per essere più concreta che mai nell’impastare fantasia e realtà stessa insieme.
Forse è proprio questo il segreto del successo di questo personaggio, “uomo intelligente, fedele alla parola data, restio agli inutili eroismi, colto, buon lettore, pacato ragionatore, privo di pregiudizi”. Un uomo che si poteva tranquillamente invitare a cena in famiglia, proprio come io ho fatto. Un uomo che “quando voleva capire, capiva”, come scriveva l’Autore già fin dal suo primo romanzo, La forma dell’acqua.
Un uomo che, come dice Camilleri nel suo Riccardino, non ha fatto altro in tutta la sua carriera che cercare la verità con la ragione e con il cuore, tenendo sempre equilibrato il rapporto tra questi due elementi per raggiungerla.
In un momento storico come questo che stiamo vivendo, la lettura di questa trentunesima e ultima indagine del commissario arriva ad ognuno di noi come una carezza. Ci consegna un Montalbano che, con coraggio, decide di non piegarsi alla volontà altrui, di non farsi sopraffare dal tempo e dai tempi che corrono, fungendo in questo modo da esempio per ognuno di noi di come ogni giorno sia quello giusto per cambiare, per cominciare, voltare pagina e ricominciare, prendendo in mano una gomma ed iniziando a cancellare finchè “davanti a lui ci fu sulo ‘na pagina bianca…”
Ancora un’ultima volta, grazie, Maestro.
Titolo | Riccardino
Autore | Andrea Camilleri
Casa editrice | Sellerio
Anno | 2020
Maria Cristina Clericò