I’m straight I’m queer I’m bi. 25 anni di Monster

I’m straight I’m queer I’m bi. 25 anni di Monster

Monster dei REM, 25 anni dopo

“L’essenziale queerness di Monster è radicata non tanto in particolari riferimenti testuali ma nella sua natura infinitamente molteplice. In ogni pezzo Stipe assume il ruolo di un personaggio o di una personalità differente. È l’incarnazione dell’eccesso queer – non semplicemente desiderare chiunque tu veda, ma desiderarlo in cento modi diversi, come cento persone diverse. Piuttosto distante da un’immagine idealizzata di armonia poliamorosa, l’album germoglia dal lato più oscuro del desiderio, dell’ossessione e della solitudine. Parla di sesso, ma raramente è sexy” (da un articolo di The Wire, numero 427)

Sono diciassette anni che la mia risposta alla domanda “qual è la tua band preferita?” coglie di sorpresa gli amici – Francesca è stata solo l’ultima, in ordine di tempo.

Non tanto per la risposta in sé, quanto per la rapidità con cui arriva: chiunque si aspetterebbe più indecisione o l’ombra di un dubbio da uno che ha fatto dell’ascolto – e dell’ossessione per la catalogazione – una ragione di vita. Invece no, non serve passare in rassegna centinaia e centinaia di artisti: la risposta arriva subito, inequivocabile. Quella band non potrebbero che essere i REM di Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e – finché c’è stato – Bill Berry.

Perché avevano tutto, i REM, come nessuno prima e nessun altro dopo.

Il suono, per cominciare. Una re-interpretazione delle chitarre jingle jangle e delle armonizzazioni vocali dei Byrds appiccicate su intelaiature folk, hard, glam, wave. Provate ad ascoltarvi tutto il filotto di album indipendenti che un po’ alla volta li fece conoscere nel sottosuolo d’America e poi d’Europa tra il 1983 e il 1987: cinque album in quattro anni, da Murmur a Document, e quasi nessuna canzone da skippare.

E poi il fascino, la capacità di rendere ogni cosa incommensurabilmente cool.

Tutto nei REM è naturale sin dall’esordio, essenziale e schietto, ma pure ricchissimo e misterioso: non mi capacito tutt’ora di quanto poco si capisse di quello che cantava Stipe e di quanto risultasse comunque ammaliante. Anche quando la sua scrittura prendeva una strada più diretta, non sapevi mai esattamente di cosa stesse parlando; ma quel mix di timbro, melodie e immagini apparentemente casuali dava corpo a emozioni tangibili. Ancora oggi, dopo tanti anni, ogni volta che in Nightswimming si parla di quella fotografia sul cruscotto che si riflette nel vetro dell’auto, un groppo stringe la gola come se Michael possedesse la mappa dei miei nodi emotivi e sapesse esattamente dove andare a premere e con quale forza.

Il che ci porta dritti al terzo punto: la grazia, il prendersi cura delle cose.

Tra il 1991 e il 1993 i Nostri diventano una delle più grandi attrazioni sonore di quel lunapark che è diventato l’alt-rock, con due million seller come Out Of Time e Automatic For The People. Chiunque, nella loro situazione, si lancerebbe in tour per l’intero orbe terracqueo; loro, invece, niente: si concentrano sul lavoro di studio e non suonano dal vivo per cinque anni. Perché quello gli va di fare, per non rimanere schiacciati nella routine album-tour-album che – lo vedono sotto ai loro occhi – sta togliendo aria a chiunque.

Però poi a un certo punto – è il 1994 – sentono che è il caso di riprendere a viaggiare, e allora si mettono di buzzo buono a scrivere le canzoni del volume giusto per lo scopo, per quello che rimarrà il capitolo più controverso della loro intera epopea. Si chiama Monster, quel disco, e non suona come nient’altro che i REM abbiano mai inciso: non lo sanno ancora, ma diventerà uno spartiacque nella loro storia.

Ne riparliamo oggi che quell’oggetto alieno compie 25 anni.

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“L’intero disco era una sorta di reazione al fatto di avere un seguito di persone così grande e di finire sui giornali per i motivi più strani. Quando lessi i testi, pensai: questi tizi sono fuori di testa, non so proprio chi siano, di certo non è Michael. Direi che questa fu l’unica volta che creò dei personaggi inquietanti e non so se la gente lo abbia capito. Si esprimeva interpretando parti che non gli somigliavano” (parole di Peter Buck, pescate da uno speciale di Ondarock: questo)

Non è questo il posto in cui leggerete un commento alla reissue celebrativa di Monster – detto che il blu dell’artwork è meglio dell’arancio originale, ma che il concerto a Chicago allegato non rende giustizia alla grande live band che erano i REM e in rete gira materiale parecchio migliore dallo stesso tour. Però che meraviglia vedere che quei musicisti che hai sempre seguito con l’ammirazione con cui si guarda ai fratelli maggiori aderire perfettamente all’idea che ti eri fatto di loro – la timidezza di Michael, la presabbene perenne di Mike.




Divertiti e rilassati, sembra però che vogliano concentrarsi sul rock’n’roll del disco, trascurandone il lato più oscuro. Che non è solo quello del sesso raccontato esplicitamente e nelle sue inclinazioni più ossessive, ma anche nella genesi e poi nell’aftermath dell’opera, fermoimmagine di un periodo cui è facile capire perché gli autori non vogliano ritornare.

Monster è dedicato a River Phoenix – l’attore amico di Stipe morto di overdose a 23 anni la notte di Halloween del 1993, fuori da un locale – e su tutto aleggia un morboso senso di precarietà e malattia e fine-dei-tempi che è difficile non associare anche al suicidio di Kurt Cobain. Un’ombra malevola che avrebbe steso la propria lunga mano su un tour flagellato da malanni e problemi fisici per 3/4 della band e culminato nell’aneurisma di Bill Berry.

Da qui, insomma, non potrà che cambiare tutto.

I’d studied your cartoons, radio, music, tv, movies, magazines
Richard said “Withdrawal in disgust is not the same as apathy”
a smile like the cartoon, tooth for a tooth
you said that irony was the shackles of youth
you wore a shirt of violent green
I never understood the frequency

Presente tutto quello che abbiamo detto finora, su suono, grazia e mistero?

Ecco, prendete quelle tre cose e fateci un bel falò, poi mettete Monster sullo stereo e sarete travolti da un’onda anomala. È il riff di What’s The Frequency, Kenneth?, strepitosa take di Peter Buck su una delle più abusate progressioni di accordi della storia del rock – da Baba O’Riley a Colpa d’Alfredo, mi ricorda Andrea – su cui s’ingarbuglia il primo personaggio messo in scena da Stipe.

C’erano questi due tizi, a New York, che nel 1986 avevano assalito il conduttore televisivo Dan Rather, ripetendogli ossessivamente la frase “qual è la frequenza, Kenneth?”. Erano fissati con l’idea che i media controllassero le loro menti e che, se avessero scoperto qual era la frequenza su cui si muovevano quelle comunicazioni subliminali, avrebbero potuto liberarsene.

Stipe riprende la frase e la mette in bocca a un personaggio altrettanto ossessionato dall’idea di comprendere la cultura giovanile della Generazione X statunitense. Se può esistere una traduzione sonora per quell’esatto zeitgeist – un frullato di ribellismo e apatia, cinismo e autodenigrazione, Coupland e Linklater, anche esplicitamente citato nella canzone – è senz’altro questo ritornello assassino.

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Are you looking to drive my dreams?
You here to run my screens?
You come, deliver my demons
Hooray, hooray, hip hip hooray
Are you coming to ease my headache?
Do you give good head?
Am I good in bed?

Leggete questi versi qui sopra e pensateli cantati dallo stesso vocalist che due-tre anni prima conquistava radio e spezzava cuori con Everybody Hurts, Man On The Moon o Losing My Religion. Straniante, vero?

Eccolo lì, il primo dei mostri del titolo.

Un’ossessione divorante per il sesso, che ritorna in brani lascivi come I Don’t Sleep, I Dream o tempi medi umidicci come Crush With Eyeliner (“che posizione dovrei assumere?”, si chiede il testo a un certo punto). Perfino quando non se ne parla direttamente, ci si diverte a tirarlo in ballo qui e là – ad esempio, nel titolo della scatenata Star 69, che in realtà fa riferimento al servizio telefonico di cui nessuno nato dopo il 1996 potrà ricordarsi e che consentiva di risalire al numero di telefono dell’ultima persona cui non avevamo risposto sul telefono di casa (“so che hai chiamato / so che hai riattaccato”).

Si rimane in zona anche con i due pezzi più deboli del discoTongue, tutta cantata in falsetto e da una prospettiva femminile e che all’epoca Stipe disse essere incentrata sul cunnilingus, salvo poi ritrattare in parte in seguito; King Of Comedy, in cui la sessualità è solo uno degli strumenti che il personaggio del testo utilizza per manipolare il prossimo.

Altro giro, altra creatura spaventosa: l’ossessione per qualcuno.

Amori anomali e disassati, che trovano sfogo in alcuni dei momenti migliori di Monster. La strofa sospesa e il micidiale chorus di Bang And Blame, il suono che divora se stesso nella dissonanza conclusiva – valga anche per quella l’appellativo di “mostruosa” – di You.

E non fatevi ingannare nemmeno da una delle più belle ballad della storia dei REM: Strange Currencies è solo un apparente doppione elettrico di Everybody Hurts che in realtà cerca di soggiogare la vittima di un sentimento non corrisposto per il tramite di parole chiave ripetute allo sfinimento.

“Sarai mia, per sempre”. E non c’è nulla di buono o romantico all’orizzonte, qui.

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I only wish that I could hear you whisper down
Mr. Fisher moved to a less peculiar ground
he gathered up his loved ones and he brought them all around
to say goodbye, nice try

Nota: questa versione qui sopra di Let Me In, remixata per il venticinquennale, non rende per nulla giustizia al brano più bello di Monster e a uno dei classici dell’intera parabola del quartetto di Athens. Il lyric video sarà pure fico, ma il valore aggiunto della composizione stava nel suono confuso, in cui la voce affogava in un mare di chitarre distorte conferendo straordinaria chiarezza emotiva al messaggio affannato del testo, il più personale – l’unico, forse – della raccolta.

Si parla di Kurt Cobain, qui, ed l’omaggio più vulnerabile e coinvolto di sempre al leader dei Nirvana – quelli di Neil Young (Sleeps With Angels) e Patti Smith (About a Boy) verranno di lì a breve -, il cui suicidio cadde proprio nel mezzo delle session di registrazione del disco. Stipe, che aveva fatto amicizia con lui, stava tentando di coinvolgerlo in un qualche tipo di collaborazione, dopo aver visto lo stato psicologico in cui versava il ragazzo.

Non fece in tempo perché per Cobain non c’era più tempo, tutto qui.

Let Me In è il lamento di chi vede una persona amata perdersi nel proprio abisso, senza poter far nulla per aiutarla. “Lasciami entrare”, mormora Stipe al presente, ma si capisce subito che – per quanto il nostro ami incasinare tempi, modi e perfino generi (Laocoonte era una donna, in Laughing) – si tratta di un ricordo. Tutto è già accaduto: “volevo provare a fermarti, ma avevo catrame sui piedi”, è la splendida metafora per il dolore di una distanza incolmabile. Che è tale perché chi stava dall’altra parte aveva già deciso tutto.

“Radunò tutti i suoi cari e li raccolse intorno a sé per dire: addio, bel tentativo”

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Monster. Una pagina dal libretto dell'album dei REM

E allora non è esattamente vero, quello che scrivevano su The Wire e che citavamo all’inizio, perfino nel titolo. O meglio, preciso: non è che Monster non sia un disco dalla sessualità infinitamente molteplice. È che quello è solo uno strumento.

Let Me In è in assoluto la canzone meno rappresentativa di Monster. La meno indicativa dei temi trattati, che fanno del disco quasi un concept; la meno significativa dal punto di vista dei modi: tanto sono meta gli altri pezzi, quanto è struggente, lirica ed emozionata questa.

Eppure è anche la traccia che ne rivela la grandezza assoluta – nonostante nella classifica dei migliori album della band non stia certo in cima – e svela la cosa più importante di tutte: nonostante tutta la coolness, le parole crude e il distacco intellettuale messi in bella mostra, i REM di Monster sono ancora una volta un miracolo di coinvolgimento e reale partecipazione emotiva, capace di convogliare sentimenti profondissimi in strutture musicali semplici.

In fondo, sta tutta qui la distanza che separa il mercato dall’arte.

Titolo | Monster
Artista | R.E.M.
Etichetta | Warner
Durata | 49’
Anno | 1994

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