Il film Monolith e il bad parenting
Ciò che colpisce in Monolith di Ivan Silvestrini è sicuramente il coraggio non tanto del film, quanto della produzione. Per la prima volta una casa editrice di fumetti italiana (la Sergio Bonelli Editorie, quella di Dylan Dog e Tex) si lancia in un mondo del tutto sconosciuto e pericoloso, quello del cinema. E lo fa (insieme a Sky cinema) con un progetto profondamente italiano nelle origini, ma che ha il respiro cinematografico (e anche i difetti) del cinema americano. Stiamo assistendo, parrebbe, ad una nuova stagione di cinema italiano, capace di re-interpretare i modelli e di accettare commistioni da vari ambiti.
Il film racconta la battaglia fra la tecnologia e l’umanità, nello specifico fra una macchina progettata per essere una fortezza e una mamma che, a seguito di una infinita serie di cazzate, si ritrova chiusa fuori dalla fortezza, con il figlio piccolo bloccato dentro. Sotto il sole del deserto californiano. L’idea di fondo e lo spunto di riflessione, nati dalla mente del re Mida Roberto Recchioni, sono interessanti ed attuali. Quanto una tecnologia progettata per proteggerci può poi rivelarsi essa stessa una prigione?
Purtroppo le note positive sul film finiscono nell’idea e nel coraggio, visto che lo svolgimento è solo in parte riuscito. La sceneggiatura prende avvio da una serie di topoi del cinema americano, che più che citazioni, sanno di già visto e stantio, a partire dai giovani rednecks cattivi all’inizio.
Il cinema “di deserto” viene ampiamente saccheggiato, in maniera spesso positiva, ma con addirittura due sequenze oniriche (Oliver Stone levati) che aggiungono poco e sembrano solo voler allungare un film la cui metratura è già limitata. I pochi dialoghi sono veramente tagliati male e cuciti peggio. Ciò che più stupisce, però, è come la tecnologia “intelligente” della macchina venga declinata esclusivamente in maniera funzionale alla trama.
Una macchina così progettata non ha neppure il freno stazionario automatico (di serie sulla Koleos di mia madre) e non mantiene la temperatura dell’abitacolo, se non con delle stupide ventole. Però ha una batteria praticamente illimitata: se la mia Fiesta fosse rimasta coi fari accesi e le ventole attivate per più di 24 ore, non si sarebbe mossa neppure a spinta.
Katrina Bowden è decisamente più bella che brava e la sua recitazione, che dovrebbe essere per la maggior parte del tempo una recitazione puramente fisica, non raggiunge mai i livelli di intensità richiesta per poter reggere da sola una pellicola intera. Oltre che nell’espressività, manca soprattutto nella fisicità, ciò nella capacità di trasmettere col corpo le emozioni. Molto più interessante è la recitazione del bambino, sempre ad un passo dalle lacrime, fastidioso e petulante, per cui assolutamente credibile.
Il viaggio interiore della donna tesa a diventare una buona mamma, ancor più che a sopravvivere, è il secondo tema portante del film. Dalla incapacità quasi ridicola dell’inizio (le biglie!), la giovane mamma raggiunge una consapevolezza un po’ buonista, in una conclusione che sa molto di cinema americano, sia per bontà e buoni sentimenti.
Il finale rimane una interessante risoluzione di trama, subito affossata da una lunga sequenza in CGI brutta che ci saremmo tutti risparmiati. Peccato, perché l’idea era molto buona. E tutto sommato, considerando il budget risicatissimo, Monolith è un film nel complesso godibile, ma non memorabile.
Speriamo che il coraggio delle idee possa moltiplicarsi e portare ad altre novità come questa. Magari poi sviluppate meglio.
Voto: 6.5