Moloch, l’urlo di provincia contro la macchina dal moto perpetuo, di Stefano P. Testa
Moloch, prodotto da Lab80 e vincitore del premio D.E-R miglior documentario Visioni Doc al festival Visioni Italiane di Bologna, è l’opera d’esordio del giovane regista bergamasco Stefano P. Testa.
La pellicola porta il nome di Moloch, il dio del sacrificio nato nella valle di Hinnom del quale Allen Ginsberg nel suo celebre poema “‘L’Urlo”, citato nel film stesso, ne ripete il nome come in una preghiera contro il male:
Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione? Moloch! Solitudine! […]
Moloch! Incubo di Moloch! Moloch il senza amore!
Moloch Mentale! Moloch il grande giudicatore di uomini!
Moloch il carcere incomprensibile! Moloch prigione senz’anima, ossa in croce e Congresso di dolori!
Sono passati 60 anni da questo grido di protesta scagliato contro la società fondata sul principio della disperazione nel tentativo di salvare tutto ciò che c’è di sacro e autentico nella vita, gli stessi anni che oggi ha Roberto, zio del regista e protagonista del film documentario che ci racconta la sua vita.
L’anima del film è proprio il lungo monologo di questo ipnotico sessantenne, le cui parole, unite a frammenti di vita anonima tratti da vecchi filmati recuperati chissà dove tra le discariche della provincia bergamasca, hanno l’inaspettato potere di bucare lo schermo e trascinarci in prima persona dentro la narrazione dei suoi ricordi: i ricordi di una vita trascorsa nel tentativo di evadere da quell’ordine prestabilito, avvertito come troppo assurdo per i sogni di un ragazzo curioso come lui negli anni della sua gioventù; quel tipo di assurdo, che nella perfetta definizione data da Albert Camus, si avverte quando ci si scontra con l’irragionevole silenzio del mondo difronte alle proprie domande e Roberto, come ci racconta lui stesso, di domande nella sua vita se n’è fatte tante, sulla famiglia, sui rapporti personali, su Dio, sulla morte e sul destino.
Moloch condivide con i suoi spettatori, non solo le domande, ma anche le scoperte di una vita vissuta nel bisogno di non uniformarsi alle regole, mentre sullo sfondo, si alternano filmati che mostrano scene di vita di un apparente mondo tranquillo che sembra aver accettato le sue convenzioni senza l’esigenza di interrogarsi troppo.
La semplicità senza effetti speciali con la quale Stefano P. Testa ci fa scivolare nell’intimità dell’animo umano durante gli undici capitoli del film, colpisce lo spettatore così come i disturbi graffiano le immagini dei vecchi nastri delle VHS che si susseguono liberamente sullo schermo tra vivaci partite di calcio, matrimoni, bambini allattati al seno da madri inesperte, ragazzi che sorridono alla camera, cene di famiglia, sesso e canti in chiesa.
L’opera ci regala così un doppio ritratto, crudo quanto efficace, in grado di far sorgere in chi lo guarda dubbi destabilizzanti ma più che mai attuali: Stefano P. Testa con il suo lavoro ci invita a rispondere e lo fa chiedendoci attraverso le parole di Roberto e le immagini della vita di una provincia come un’altra, cosa spinge un individuo a cercare strade alternative di pensiero e allo stesso tempo, dove porta l’essere contro il sistema e le convenzioni sociali e, cosa è il Sistema in realtà? Cosa sono poi davvero queste convenzioni?
La risposta di Roberto è quella di un uomo qualunque che, nato in un’epoca che lo ha nutrito di cose i cui frutti erano già marciti, si è ritrovato protagonista di un tempo scomodo, posto tra la società del passato, dove la felicità consisteva nell’adempiere ai propri doveri adeguandosi alle convenzioni sociali e rinunciando a tutto il resto e la società del presente, dove invece, sono le convenzioni sociali stesse a dire che l’unica felicità possibile è quella del dover realizzare i propri desideri ad ogni costo, riuscendo ad intuire che entrambe, richiedono una tale immolazione da sembrare solo due facce diverse dello stesso sacrifico a quella divinità suprema sempre pronta ad ingoiare ogni esistenza, ma Moloch, è un film che non intende rispondere oltre e affida a noi il compito di interrogarci ancora.
Come tiene a sottolineare Il regista stesso, infatti, egli ha scelto di utilizzare la metafora del dio divoratore di uomini per parlare proprio di questo concetto che lui definisce come la macchina dal moto perpetuo dalla quale non è possibile scendere ma che proprio per questo, in qualche modo, ci riguarda tutti: chi di noi, non ha mai sentito almeno una volta, il bisogno di fuggire dalla sterilità di quei copioni che, per quanto diversi tra loro, sembriamo comunque dover recitare per forza come un destino fatale dal quale non è possibile sottrarsi? Ma soprattutto, esiste davvero un modo per sottrarsi?
Non sappiamo se e quando qualcuno troverà una risposta, ma sicuramente dopo averlo visto sentiremo di aver trovato un nuovo amico nella figura di Roberto e avremo voglia di ringraziare il regista Stefano P. Testa per il suo originale lavoro che si colloca a metà tra un documentario che ricorda il gusto amaro della Beat Generation e una bizzarra quanto affascinante forma di neorealismo postumo che non ha bisogno di grandi attori e, sopra ogni cosa, possiede la rara forza di regalarci un motivo per mettere in discussione la nostra vita, regolare o fuori dagli schemi che sia.
Come diceva anche Pasolini del resto, è soprattutto quando è lieta ed innocente che la vita non ha pietà e quindi, anche se non potremo mai conoscere il prezzo da pagare per l’ostinata ricerca di nuovi orizzonti, Moloch ci ricorda che è giusto continuare a porsi delle domande per quanto senza risposta o scontate possano sembrare, perché meno domande ci poniamo e più la vita si presenterà spietata come il dio dei sacrifici.
Ever tried. Ever failed. No matter. Try Again. Fail again. Fail better. Samuel Beckett
Fede Terribile
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