Michele Mari | Tu, Sanguinosa Infanzia
...o di come ho ripreso contatto con la letteratura italiana
È da un po’ che medito di riprendere contatto con la letteratura italiana, specie quella contemporanea.
Di mezzo c’è sicuramente una questione di credibilità; perché – diciamocelo – è quasi paradossale correggere compulsivamente i congiuntivi di ogni malcapitato interlocutore se l’ultimo libro italiano letto è “I Promessi Sposi”. E poi, ogni intellò-formato- enoteca deve avere al proprio arco una freccia da scoccare quando, tra un lambrusco e gewurztraminer, vengono fuori i nomi troppo ovvi di Ammaniti o Baricco; così, tanto per dare sfoggio di una solida preparazione in letteratura italiana. Infine, constatando che la letteratura straniera stava saturando la mia ambiziosa bibliotechina domestica, ho concluso che un po’ di variatio poteva giovare.
Eccomi dunque a parlarvi di “Tu, Sanguinosa Infanzia” di Michele Mari; undici raccontini che, a dispetto del mastodontico segnale “PERICOLO BANALITÀ” che si materializza nella mente del lettore all’approssimarsi del tema infanzia, non vi lasceranno insoddisfatti.
Provo ad anticipare la probabile domanda “Ma chemmefregaamme dell’infanzia di Mari?” sottolineando innanzitutto l’interessante approccio dell’autore ad una materia “rischiosa”: a parlare infatti è sempre il Mari adulto, nelle argomentazioni e nel lessico, il quale opera un’indagine articolata ed un recupero altissimo delle proprie emozioni infantili; ciò anziché servire l’ovvio, sciapo, surrogato di “purezza del bambino”, magari con contorno di patetismo, del quale si può effettivamente fare a meno.
Ad avvalorare la narrazione è la prosa piacevolmente cervellotica, che rende problematici, quindi rilevanti, episodi che altrimenti resterebbero obliati da una coltre di insignificanza.
Chi, a questo punto, intravede la retorica del “bello nelle piccole cose”, farebbe meglio a cambiare gli occhiali da lettura. Mari – deo gratias! – viaggia su frequenze decisamente più raffinate, proponendo una potente ed immaginifica soggettività, che porta la materia biografica ad un altro livello di pienezza: una sorta di “realtà aumentata”, ricca, fertile, che sconfina talvolta in luoghi sognanti e a-spaziali, popolati di fantasmi e dove echeggiano dialoghi impossibili. In essi potrete, ad esempio, dialogare con la Morte (“E il tuo dimon son io”) o godervi l’incontro con i grandissimi della letteratura del passato (“Otto scrittori”).
Ed è qui che vedrete Mari come un vero gigante.
Parallelamente, difficile non notare – e personalmente apprezzare – la materialità dei frammenti d’infanzia che l’autore recupera. Gli oggetti superano il ruolo di mero riferimento fisico per assurgere a quello di riferimento psicologico, infondendosi di simbolismo e sentimento. Immaginateli come tanti piccoli “ready-made” (vi ricordate Duchamp, no?), raccolti nello spazio espositivo di “Tu, Sanguinosa Infanzia”.
Passeggiate allora in questa galleria di feticci per riflettere sul legame uomo-oggetto nell’epoca della smaterializzazione; oppure lasciate semplicemente che la nostalgia soffi via la polvere fa quelle che furono le vostre “coordinate materiali”.
Insomma, poche pagine ma tanti contenuti, incastonati in una forma mirabile, facendo di alcuni racconti degli autentici gioiellini.
Mari è scrittore con la “S” maiuscola: cavalca registri e ritmi differenti, equilibrando leggerezza e gravità, svariando tra prese di distanza e inabissamenti nel proprio, intimo, vissuto. Raggiunge così uno stilema non comune, da alcuni accostato a quel pastiche linguistico di gaddiana memoria.
Mari ama la parola e attinge a piene mani dalla vastità della lingua cercando l’esattezza in ogni scelta lessicale. Ne deriva un linguaggio non sempre facile, che può togliere qualcosa alla scorrevolezza della lettura, ricompensandoci però, ampiamente, con la vividezza del narrato. Ringrazierà sicuramente il nostro lessico, minacciato dalla desertificazione internet-imposta, che potrebbe trovare qua e là nelle pagine qualche spunto di arricchimento.
Doveroso l’avviso al proselite di Ammaniti di cui sopra – frattanto uscito dall’enoteca per recarsi in libreria: c’è il rischio che qualche lemma desueto vada stanato qui.
Scorgo infine una (virtuale) mano alzata tra i lettori di SALT: “Ma perché quest’infanzia è sanguinosa?”
“Grazie della domanda!” (ottimo escamotage per inserire quest’ultimo concetto).
Dunque, Mari non ha toni entusiastici (eufemismo) per questa fase della sua vita. Ascoltiamolo:
“Ora, per l’intelligenza del patetico di questa storia, bisogna sapere che con l’orchesca personalità di mio padre io intrattenevo un insoluto rapporto materiato di paralizzanti terrori e di paralitici grumi di immenso affetto inespresso, di antagonismo feroce e pertanto di abominoso commercio con la colpa”
… ma non immaginatevi Michelino dall’altro capo della cornetta del Telefono Azzurro.
A prevalere è piuttosto l’idea che la crescita rappresenti una “diaspora” dei talismani infantili cui si accennava; che esperire e confrontare costringano a ridimensionare, persino a mutilare idee nelle quali l’istinto (rozzo ma puro) del giovane ha impresso un valore inestimabile, lasciando in mano all’adulto soltanto “brandellini” (termine brutalmente fisico mutuato dallo stesso Mari) sanguinanti.
Definirlo un Barrie in versione noir potrebbe essere riduttivo per uno scrittore cangiante, sperimentale; uno di quelli che non ti cambiano la vita, ma che sarebbe un errore sottovalutare; uno di quelli che ti intrattengono con intelligenza, ma senza fare il moralizzatore; uno che, quando meno te lo aspetti, se ne esce così:
“(…) oh struggimenti, oh abbracci! Questo finale ti eri figurato, eh? la melassa dei cromosomi, e invece
no! Il finale è un veleno, la vita è orrenda, se Dio è negli orsini perché poi ci interessa la figa?”