Michael Bay: facciamo il punto
Oh, eccoci qua. Bentornati, come va? Pronti ad affrontare un nuovo anno (siamo tutti d’accordo che l’anno inizi a settembre, giusto?) all’insegna del rancore e dell’insoddisfazione? Benissimo, ne ero certo. Ma, mio compito su questi lidi – specie in questo triste mese – è quello di alleggerire la vita di ciascuno di voi parlando di film colorati, divertenti, bim bum bam.
E oggi lo facciamo grazie al Nostro Signore delle Esplosioni: Michael Bay, regista.
Calma, CALMA! Posate i forconi, prendete l’ironia e seguitemi.
Dobbiamo metterci d’accordo su Michael Bay. Perché Michael Bay è uno di quei registi che portano delle problematicità che ce li rendono difficili da digerire. Chi è davvero il Bay, un cineasta talmente tanto riconoscibile da avere a sé dedicato uno stile registico (il bayhem, appunto) eppure visto dai più come la morte del cinema: tamarro o visionario? Fascistoide reazionario o anarchico messia del tritolo? .
I primi film di Bay (1995-2005) – The Rock e il dittico di Bad Boys – sono capisaldi del cinema action anni ‘90, tanto quanto Top Gun, Arma letale e Die Hard lo erano stati prima di loro, che sono serviti ad incidere a grandi lettere “BAYHEM” nel titanio. Non dirò molto sui due Bad Boys se non che sono stati i primi – e ad occhio e croce unici – film repubblicani ad avere una coppia di attori afroamericani come protagonisti. La Marvel c’ha messo 10 anni e 16 film per farne uno e ci ha montato sopra una tale campagna da farlo addirittura candidare all’Oscar. Michael Bay aveva già fatto tutto, con molta più umiltà, in un’epoca in cui quello nero era ancora il primo a morire. Chapeau.
Diventato famoso, il Bay poté girare Armageddon che, più che un film, pare essere un pamphlet istruttivo su cosa sia l’America. C’è una minaccia esterna, in questo caso un asteroide (ma potrebbe benissimo essere, chessò, un virus); c’è il Presidente – palesemente Trump – incapace di scegliere; gli scienziati, onesti e capaci ma incompatibilmente lenti; l’esercito che si mette di traverso. E il popolo.
E come viene rappresentato il popolo dal Bay? Sono contento l’abbiate chiesto. La scena di team-building è antologica. Si va oltre la morale americana dell’onesto e umile cittadino che assurge alla santità: qui sono tutti degenerati, white e black trash, che, nel migliore dei casi, sul CV hanno “incesto” tra le relevant skills. Eppure riescono laddove i tecnici e i burocrati falliscono. Sono la vera forza del paese, in grado di risolvere ogni cosa se non fosse per le pastoie impostegli dai poteri forti. Si può non essere d’accordo, ma è il mondo di oggi con 20 anni d’anticipo e forse tocca farci i conti.
Eppure.
Certo, gli eroi americani salvano il mondo, ma a salvare gli eroi americani deve arrivare un cosmonauta russo che sbraita in bolscevico. Se non anti-patriottico, abbastanza autoironico da insinuare almeno un dubbio sul reale pensiero di Bay.
Nel decennio successivo (2007-2017), Bay si dedicò quasi esclusivamente alla saga dei Transformers (saga che non mi pento di aver abbandonato al primo capitolo da quando ho scoperto che hanno perso Megan Fox per strada), interrompendola solo per girare Pain & Gain e 13 Hours.
Pain & Gain…l’avete mai visto? Film strano, vero? Due ore e dieci di perculamento ai palestrati yankee repubblicani e in generale alla morale protestante “lavoro -> successo” che permea la società americana. Un film che se l’avesse fatto [chiunque altro] sarebbe stato recepito come la critica satirica definitiva ad una certa cultura machista e arrivista. Il problema è che viene da Michael Bay – che magari non sarà un palestrato, ma uno yankee repubblicano di quelli cresciuti ad hamburger e 4th of July sì – quindi un po’ spiazza. È come se Borgonovo girasse American History X, o se Paperone smontasse il capitalismo (ops).
13 Hours è invece un esempio altrettanto atipico di war-movie, uno dei due generi identitari degli USA (l’altro è il western), in cui il Bay, più che sull’epica e sulla coolness del napalm, decide di puntare sulla mestizia e sulla disillusione dei soldati. È un Bay maturo, quasi cinico, quello di 13 Hours. I soldati, pur sempre araldi manicheici di eroismo patriottico, compiono il proprio dovere non traendone il gagliardo benessere che animava gli esagitati redneck di Armageddon né mirando alla santificazione come ogni bravo soldato americano, quanto piuttosto con la mestizia e la rassegnazione del mulo che continua a tirare l’aratro del padrone fino a crepare. Lo fa perché è il suo lavoro, non perché ne condivida il senso.
Ecco, la crepa che si era aperta con l’autoironia di Armageddon si allargò con questi due film facendomi venire un dubbio: ma Michael Bay ci fa o ci è?
Io non ho una risposta a questa domanda. Non so cosa pensi Michael Bay, né voglio a tutti i costi trovare una spiegazione (o una giustificazione) all’immotivata simpatia che provo per un regista generalmente bollato come atroce. Però il dubbio che Michael Bay ci abbia sempre presi tutti per il culo, a me viene.
L’ultima fatica di questo regista, 6 Underground, non ha risposto ai miei interrogativi. Nel contempo: che spettacolo!
6 Underground è, a tutti gli effetti, un superhero movie.
Nel decennio cinematografico che sarà ricordato come “il decennio dei supereroi”, Michael Bay decide di presentarci il suo team: una suicide-squad con i soldi di Iron Man e l’umorismo di Deadpool, un team d’azione composto esclusivamente da Belli & Deprecabili che, convinti dell’inadeguatezza dello Stato, si autonominano vigilantes e vanno a prendere a calci i cattivi. Bay si diverte fin troppo a girare la sua Justice League, ricoprendola con una glassa glamour che non si respirava dai bei tempi della saga di Ocean’s e accompagndola con la raffinatezza di una barzelletta di Pierino.
E se la serietà di un film è 0, forse è anche giusto che la seriosità si adegui (è la legge di Mr. DNA, ricordate?). Perchè va bene credere in quello che dici, ma se ci credi troppo finisci per fare un film che si crede stocazzo pur avendo il valore narrativo di una pubblicità per deodoranti (e scusate, ma l’espressione “proiettile con entropia invertita” ha la stessa serietà di uno che fa parkour sulla cupola di Brunelleschi). Bay lo sa, prende tutti quelli che gli vengono universalmente riconosciuti come limiti, li pompa fino a farli diventare le fondamenta stesse del film e li sbatte sui ghigni malevoli dei critici, trasformando l’autoironia in autocelebrazione.
Non è vero – come si legge in giro da adulatori forse troppo sbilanciati – che 6 Underground pone un nuovo standard per il cinema action (Fast & Furious offre scene piuttosto simili da 10 anni e Mad Max ci aggiunge addirittura una trama). Semmai è la densità di questi momenti, o la totale sfacciataggine con cui viene ignorata qualsiasi altra regola cinematografica e narrativa, ad essere il vero punto di forza del film.
Voglio dire che se dite “il film è roboante, dalla trama inconsistente, una sequela di esplosioni via via più grosse” a riguardo di, chessò, The Avengers, io vi rispondo che no, non è così e che quei film sono il corrispettivo moderno dei romanzi di Dumas o dei poemi omerici e sulla base di questo dissenso, secondo principi dialettici codificati nei secoli, uno dei due cercherà di convincere l’altro. Viceversa, se dite lo stesso di 6 Underground io vi rispondo “esatto, evviva!” con un sorriso a 32 denti e la discussione morirà lì. Non saremo in disaccordo, il problema è che ciò che per voi è una debolezza per altri sarà un punto di forza.
Le analisi seriose che si leggono sulla pochezza della trama, l’inconsistenza del montaggio, persino sulla coerenza geografica (“da Firenze a Siena nella stessa inquadratura!!!!”, quanta attenzione filologica per un film il cui cattivo è – dichiaratamente – il dittatore del Burmini) non sono critiche, sono constatazioni. Mentre voi le stilate con le vostre penne imbevute d’arroganza – e invidia – Michael Bay è già andato oltre, passando alla prossima scena e facendo esplodere un’altra macchina. Non riuscite a stargli dietro al Bay, nemmeno nelle critiche.