Ma c'è talvolta in noi dell'Arte

Aveva trent’anni, Guido Ceronetti, quando scoprì Kavafis. Glielo fece amare una ragazza greca che a Torino gli dava lezioni, come lui stesso racconta, nei luoghi più incongrui: vecchi cinema, balere, piccole corti con portinaie sospettose.*

Avevo vent’anni, quando scoprii Kavafis. Me lo fece amare una ragazza con cui ero solita condividere le scoperte culturali più fervide e improbabili dei primi mesi di università: il jazz di Dave Brubeck, la copertina del disco dei Kings Crimson, le poesie di Constantinos Kavafis.

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Da quel momento, “Un’ombra fuggitiva di piacere”, breve raccolta di poesie di Kavafis edita da Adelphi, staziona sul comodino accanto al mio letto, immune allo scorrere dei giorni, dei mesi e degli anni.

 

Ma c’è talvolta
in noi dell’Arte,

di mente tale eccesso

che un’ombra fuggitiva di piacere
trasformiamo in sostanza,

ne facciamo
realtà palpabile.

 

Ed oggi come allora, il cuore salta un battito quando rileggo quei pochi versi di inafferrabile bellezza. Il coraggio di sussurrarli è tiepido, ma è in quelle quattro lettere accostate, in quell’Arte, quella con la A maiuscola, che risiede la chiave di lettura, l’antidoto contro la malinconia delle palpitazioni sempre troppo fugaci, elusive, inconsistenti che scaturiscono alla vista di ciò che anima i nostri sensi.

Ma talvolta – per carità del Cielo, non sempre, quasi mai, soltanto talvolta – come fosse un regalo inestimabile, riusciamo ad intrappolare quegli “sparuti e incostanti sprazzi di bellezza” e li afferriamo saldamente con tutta la forza che abbiamo in corpo, increduli per ciò che stiamo trattenendo tra le mani, storditi dall’intensità con cui si obnubilano le nostre percezioni. Ed ecco allora che il “rapimento erotico” sembra palpabile, addirittura “assoluto”, mentre l’ebbrezza della mente si sostituisce al piacere delle carni.

Non c’è tedio, non c’è patimento sul finale di questa mezz’ora, sulle lancette che riportano il poeta alla consapevolezza che nessuna “vertigine d’alcool, sogno, pur tanto forti, mai…” avrebbero potuto inebriarlo similmente.

 

* 

Mio non sei stato, né mai sarai,

credo. Fu l’altro ieri:

uno sfiorarsi al bar, dirsi qualcosa,

niente di più; e già la pena provo

del rimpianto, confesso. Ma c’è talvolta

in noi dell’Arte, di mente tale eccesso

che un’ombra fuggitiva di piacere

trasformiamo in sostanza, ne facciamo

realtà palpabile. Così fu al bar,

l’altro ieri: complice in me una

ubriacatura misericordiosa,

in rapimento erotico ho vissuto

per mezz’ora, assoluto…

 

(devi averlo capito: sei rimasto

apposta un po’ di più). Ma quanto,

oh quanto necessario fu il guardarti

nelle labbra, e il corpo tuo accanto

avere al mio… Concesso

non m’avrebbero un tale incanto

vertigine d’alcool, sogno,

pur tanto forti, mai…

 

(*da Un’ombra fuggitiva di piacere, a cura di Guido Ceronetti, Adelphi edizioni)




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