Franco Basaglia e quei matti da slegare
“Nessuno o tutti – o tutto o niente.
Non si può salvarsi da sé”
Con questi versi, Brecht riteneva non fosse possibile salvarsi in pochi, lasciando indietro i più deboli, gli inadatti o semplicemente i deliberatamente esclusi: o la salvezza è bene di tutti, alla portata di tutti, oppure non si può parlare di vera salvezza. Eppure nel corso della storia molte categorie sono state escluse o abbandonate ai flutti del loro destino perché più fragili, meno “adatti”, o semplicemente perché considerati diversi, lasciate ad aspettare che qualcuno si ricordasse di loro, che trovasse la forza di soccorrerle.
Il rischio intrinseco nell’emarginare fisicamente una categoria è creare un solco nel pensiero, scavare una linea di demarcazione sociale, molto più difficile da superare dell’emarginazione fisica (della reclusione, dell’allontanamento, del rendere periferico, marginale), in quanto insita nella mente non di una persona, ma di una società. Servono rivoluzioni intere (e a volte non bastano) per instillare il seme del dubbio in quel vallo, per sentire incrinare il sentimento dello stigma sociale e pubblico, per sradicare qualcosa di così connaturato e corroborato dagli anni di storia passata. Franco Basaglia si fece promotore di una di queste rivoluzioni, che culminò con la legge 180 a lui intitolata, ma che non vede in questa il suo più alto merito. Basaglia dimostrò che esistevano alternative nella cura dei pazienti affetti da malattie psichiatriche, svelò un nuovo metodo moderno, reso anche possibile dalla diffusione dei primi farmaci efficaci.
Silvano Agosti ne La Seconda Ombra ci vuole raccontare questa rivoluzione, come fosse una poesia. Basaglia (interpretato da Remo Girone) viene colto nell’atto quasi fiabesco di cambiare uno status inveterato nella cultura e nella sanità, quando decide di aprire porte e finestre del manicomio da lui diretto (Gorizia o Trieste, a giudicare dall’accento dei pazienti e degli infermieri) e di buttare giù simbolicamente il muro di cinta, insieme ai pazienti, tutti insieme.
Agosti si era già avvicinato alla tematica della patologia psichiatrica con una serie di documentari, realizzati insieme a Marco Bellocchio (Matti da Slegare) negli anni antecedenti alla legge Basaglia, quando si iniziava a parlare del nuovo metodo e ad aprire i vecchi manicomi. La vena documentaristica emerge anche nel film girato nel 2000, nei primi piani dei malati e dello stesso Basaglia, intento ad osservare, quasi nascosto, come lo spettatore di un film, l’istituto psichiatrico e i pazienti: all’inizio mascherato sotto le mentite spoglie di un inserviente, per poter apprezzare i metodi barbari usati, poi come un padre affettuoso che cura i suoi figli da lontano, controllando che non si facciano male. A differenza del documentario Matti da Slegare, però, la dimensione politica legata alla contestazione viene completamente abbandonata e sostituita da una patina di affettuoso ricordo da parte del regista, nei confronti di Basaglia stesso e dei malati. Smussati gli angoli politici, rimangono solo i chiaroscuri della memoria, la dimensione della rievocazione, avvolta di fiaba e mai retorica. Siamo lontani dalla spettacolarizzazione tipicamente americana della malattia psichiatrica (vedi Shutter Island, che di psichiatrico non ha fondamentalmente nulla). Sono i tagli di luce ed ombra a dipingere la scena, che inizia negli interni resi bui dalle finestre sempre chiuse e prosegue nel giardino, dove la luce accecante del sole si intervalla alla penombra data dagli alberi: è il primo passo verso la libertà dal pregiudizio, una strada non ancora completamente illuminata e lunga da percorrere.
Remo Girone regala a Basaglia un sorriso di una dolcezza disarmante, che riassume l’approccio dello psichiatra nei confronti dei malati. Visti fino ad allora come oggetti o numeri, a differenza dei pazienti di tutte le altre categorie, da tenere rinchiusi, da punire, per Basaglia i malati sono prima di tutto persone bisognose di aiuto. Capì che un sorriso e qualche parola dolce, l’umanità e la compassione che non compatisce, possono fare molto di più dei metodi detentivi e punitivi usati fino ad allora. È un nuovo approccio alla patologia psichiatrica, che rimette al centro dell’interesse clinico la persona e non la malattia. I malati vanno ascoltati, le loro paure vanno condivise: questo è il primo passo verso l’accettazione.
I pazienti psichiatrici (e anche gli operatori, i medici..) erano a tutti gli effetti dei carcerati, senza fine pena. La reclusione e l’allontanamento dal mondo erano considerate le uniche possibilità di cura, che finivano, però, per ottenere l’effetto inverso, privando i malati degli stimoli ambientali che oggi sappiamo essere così importanti, e segregandoli in un ambiente dove riecheggiavano per lo più grida di dolore (e se non eri pazzo, lo diventavi). Il film rende, con la dovizia di chi ha visitato quei luoghi, le urla che impregnavano le pareti, le sevizie, l’agitazione e le terapie, compresi gli elettroshock (ancora fatti col “forchettone” e senza anestesia). Sopra ogni cosa regna il senso del chiuso, dell’ombra che non può essere scalfita dal sole che non penetra le finestre sempre chiuse, le porte sempre sprangate. La prima rivoluzione è far entrare quella luce.
A parte Remo Girone, tutti gli altri attori presenti nel film sono in realtà ex pazienti e infermieri o operatori provenienti dai manicomi di Gorizia e Trieste. Su di loro è facile vedere i segni del passato manicomiale, come il tabagismo compulsivo e le distonie da uso smodato di neurolettici; nelle loro parole il ricordo nitido, anche se spesso quasi ridicolizzato, degli elettroshock, delle contenzioni. Si assiste al passaggio di questa umanità disperata da una detenzione buia, fatta di gesti ripetuti e vuoti, ad una prima forma di libertà, non ancora completa né definitiva. Non ci sono i misteri e le paure tipiche dei film d’oltreoceano, niente super serial killer, niente atmosfere da film sugli zombie (sempre Shutter Island), niente personalità multiple (che Hollywood adora, pur essendo rare anzi quasi inesistenti!). Rimane solo questa società “residuale”, che cerca un posto nel mondo dal quale è stata esiliata; che cerca di uscire da quella seconda ombra nella quale si era rifugiata per scappare alle brutture del mondo e del manicomio.
Il nuovo metodo “umano” di Basaglia porta un primo risultato nell’abbattimento del muro di cinta da parte dei pazienti e degli operatori, simbolo della fine dell’emarginazione fisica. Purtroppo non basta abbattere muri per ottenere la libertà: l’emarginazione del pensiero, lo stigma sociale, non cadono solo grazie al gesto simbolico di un piccone. Ancora oggi, invece, rimangono nel cuore della società, nel punto più profondo e difficile da raggiungere della nostra mente. Anche noi che ci definiamo moderni ed emancipati, alla fine, in fondo in fondo, percepiamo la presenza di questo solco. Ciò dimostra che la strada da fare è ancora lunga.
L’anno scorso sono stati chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, veri e propri carceri (non tutti, in realtà), ultimi residuati di una cultura pre-Basaglia. La domanda che dobbiamo farci non è “e adesso dove li mettiamo?”, bensì cosa possiamo fare per aiutarli.
Titolo: La Seconda Ombra
Regia: Silvano Agosti
Anno: 2000
Interpreti: Remo Girone
[…] che lo hanno costretto in una gabbia i cui veri e propri creatori hanno poi amato vituperare. È Tommy il matto, eppure tutti i personaggi con cui interagisce, illustri esponenti della più banale normalità si […]
[…] da qui, un sentito grazie a Basaglia, così, en […]