Materiale resistente. Quattro album per un autunno caldo
Circa un mese fa ho deciso di riprendere in mano un vecchio post che avevo scritto per il mio blog, una piccola cosa in cui avevo raccolto i miei cento dischi preferiti dello scorso decennio, e ne ho ricavata una strana sensazione di scollamento, di distanza. C’era moltissima musica che ora definirei da cameretta, nella prima stesura, e ben poco spazio per album che cercassero un confronto duro con il pensiero dominante, per artisti dichiaratamente politici. Come se politica fosse in fondo una parola brutta, sconveniente.
Sicuramente credevo di avere buone ragioni, allora – vent’anni e tanta voglia di parlare d’altro, sicurissimo che i tempi che sarebbero arrivati, per quanto cupi potessero essere, non avrebbero potuto farsi peggiori di quanto visto a inizio millennio (voglio dire: peggio di Bush, Berlusconi e Putin insieme? Peggio di Bolzaneto e 11 settembre in rapida successione?). Davo per scontato che comunque, anche sul medio periodo, la voglia di costruire avrebbe logicamente prevalso e tutto questo si rifletteva in ascolti tipici da maschio bianco occidentale, uno di quei soggetti cui la vita fila talmente liscia che gli è concesso concentrarsi quasi esclusivamente sul proprio ombelico. Di innamorarsi del proprio disimpegno.
“L’uomo vive letteralmente nel suo mondo di prodigi come un fanciullo, è anzi un fanciullo di fiaba. Può viaggiare in velivolo, parlare con un altro emisfero, procurarsi delle leccornie mettendo pochi soldi in un automatico, portarsi a casa un pezzo di mondo colla radio. Preme un bottone, e la vita gli affluisce incontro. Può una tale vita renderlo emancipato? Al contrario. La vita per lui è divenata un giocattolo. C’è da stupire che egli vi si comporti come un bambino?” (Johan Huizinga, La crisi della civiltà)
Ecco: la mia classifica dei dischi l’ho dovuta stravolgere, solo due anni dopo. Perché oggi tocca essere persone diverse, con tutto quello cui abbiamo dovuto assistere da Trump fino al baratro del cosiddetto Governo del Cambiamento, quello che in un’estate ha fatto strage di migranti nel Mediterraneo e di rispetto dell’Altro, in nome di un’ideologia violenta e becera capace di negare decenni e decenni di conquiste e diritti civili (così basilari da essere pre-politici) e di cui ha ben scritto Marco Damilano in un recente editoriale per l’Espresso:
“Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno strappati davanti alle telecamere, «se delinqui ti leviamo il foglietto». E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma, come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini «segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista». E non si potrebbe dirlo meglio, ottant’anni dopo.”
Cosa fare contro questo imbarbarimento continuo, contro questa visione a tunnel che pare costringerci a scendere giù per un gorgo senza fine? Pensare, leggere e studiare, perché in realtà gli strumenti per combattere li abbiamo e sono tutti scritti: quella citazione di Huizinga è di ottant’anni fa, anche se sembra venire da dopodomani; guardare, ascoltare, scendere in piazza quando è il momento; fare cose che abbiano impatto sulle vite degli altri; in fondo e più semplicemente, abbandonare per sempre quella cameretta che pareva tanto confortevole e non diceva però nulla sul Male che sarebbe arrivato. E c’è bisogno, infine e ancora, di musica che ci parli dei nostri tempi, che ci insegni di nuovo l’alfabeto dello stare insieme, del desiderare qualcosa di meglio per tutti, dell’interessarsi agli altri. Qualcosa che ci faccia ballare e protestare, che ci faccia riprendere possesso di testa e corpo, come i quattro album che vi racconto oggi.
IDLES | Joy as an Act of Resistance
my blood brother is an immigrant
a beautiful immigrant
my blood brother’s Freddie Mercury
a Nigerian mother of three
he’s made of bones, he’s made of blood
he’s made of flesh, he’s made of love
he’s made of you, he’s made of me
unity!
Ho visto gli IDLES solo una volta, al Primavera Sound di quest’anno, e ne sono rimasto folgorato: ben di rado ormai si prova una sensazione di reale minaccia a un concerto rock, vuoi perché al giorno d’oggi lo spazio per l’imprevisto si è ridotto drammaticamente, vuoi perché in fondo viviamo quello che Stefano Solventi chiama “crepuscolo del rock”. E invece su quel palco c’era un gruppo devastante che suonava punk come se il punk fosse una cosa dei giorni nostri, come se stesse succedendo proprio ora, davanti ai nostri occhi, con un bruciante desiderio di prossimità e condivisione.
A settembre, poi, è arrivato il nuovo album, programmatico fin dal titolo: Joy as an Act of Resistance. Dentro, dodici brani che frullano punk e hardcore, cori da stadio ubriachi e una rabbia che erompe gioiosa dalle casse: succede in Colossus, esercizio di tensione trattenuta e poi finalmente rilasciata con foga animalesca ma precisione millimetrica; succede nel battito cadenzato e quasi militaresco di Never Fight a Man With a Perm, nel groove post-punk di Samaritans (che parla di mascolinità tossica) e nella straziante June (che dice della morte della bimba del vocalist Joe Talbot). Succede nella strepitosa Danny Nedelko, un inno che è un classico istantaneo, che racconta di un amico immigrato, che ti prende per il collo e ti dice che non c’è nessuna differenza – proprio nessuna – fra te e il tuo prossimo.
Sons Of Kemet | Your Queen is a Reptile
and we know what we came here to do. We know where we came from. We came on boats, on planes, with passports and on the backs of trucks. We worked three jobs and sent the money back home. We brought our motherland to life in our kitchens, our bedrooms, our churches, our songs, our dance, our sex, our pidgin, our patois. We found pride and strength in sweat, death, life, tears and each other. We knew the system was rigged and the only path to freedom was for the system to burn.
Si è subito preso la mia attenzione, Shabaka Hutchings, la prima volta che l’ho ascoltato in uno dei miei negozi di dischi preferiti: il suono di un album come Wisdom Of Elders pare davvero arrivare dalle profondità del tempo, un afrofuturismo che trova forse come unica, vera pietra di paragone Sun Ra. Un nome chiave del jazz dei giorni nostri, che con i suoi Sons Of Kemet prende una strada diametralmente opposta all’approccio spirituale e larger-than-life di Kamasi Washington (vero responsabile della jazz renaissance dall’altra parte dell’Atlantico).
Il nuovo Your Queen is a Reptile, uscito a inizio primavera su Impulse!, è un mix assassino di sax, tuba (di Theon Cross), batteria e radi interventi vocali; nove tracce in cui l’influenza delle origini caraibiche del Nostro sulla ritmica lascia letteralmente senza fiato. Ogni brano, una dedica a una donna: Mamie Phipps Clark, Harriet Tubman, Anna Julia Cooper, Angela Davis, Queen Nanny, Yaa Asantewaa, Albertina Sisulu, Doreen Lawrence; all’inizio, però, sta My Queen is Ada Eastman, la bisnonna di Shabaka. Contro il razzismo insito alla monarchia britannica, le nove composizioni di Your Queen is a Reptile veicolano un unico messaggio: la vostra Regina non ci vede come umani, la nostra Regina è come noi; e noi siamo umani.
Giorgio Canali & Rossofuoco | Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro
non si fermano mai, è un cataclisma, un gran macello
un uragano di bestemmie, un autoscontro nel cervello
non si fermano mai, è una tempesta, un temporale
tuoni, fulmini, saette e vaffanculo le cicale
Sono passati vent’anni dal primo album solista di Giorgio Canali, e, se la massa sonica si è inevitabilmente assottigliata (i suoi live di una decina di anni fa erano letteralmente assordanti), la capacità del nostro di comporre perfette schegge alt-rock dal cuore sanguinante è rimasta intatta: Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro mantiene tutte le promesse di una discografia immacolata, in cui è difficile individuare un vero apice.
Nessuno può sentirsi al riparo dalla bile di Canali, in questi trentotto minuti: non i conformisti né i razzisti; non l’uomo qualunque né i maniaci da social network, “gente con 4g e un’ignoranza da Medioevo”. Parole al vetriolo, che scoppiettano divertite in libere associazioni come se fossero venute in mente proprio davanti al microfono, infilate in schemi strofa-ritornello-strofa calibratissimi e ruspanti (segnatevi almeno Piove, Finalmente Piove, Undici ed Emilia Parallela). Tra una bestemmia e l’altra, c’è spazio anche per sentimenti e relazioni: per Canali, ogni storia d’amore è una storia di Resistenza. E viceversa.
Marc Ribot | Songs Of Resistance 1942 – 2018
it was in Austin’s Bar and Grill
but it could’ve been most anyone
a madman pulled the trigger
Donald Trump loaded the gun
my country ‘tis of thee…
Fatto: YRU Still Here? dei Ceramic Dog alla fine dell’anno sarà quasi certamente sul mio podio personale: meravigliosamente creativo, spiritato e coinvolgente l’art/punk/jazz del trio del grande Marc Ribot, permeato da cima a fondo da un anti-trumpismo militante. Con lo stesso spirito partigiano, Ribot ha approntato in pochi mesi un nuovo lavoro, una selezione di canzoni di protesta tradizionali o appositamente composte e cantate da ospiti fuori dall’ordinario. Si chiama Songs Of Resistance 1942-2018 ed è ancora una volta imperdibile.
Della Bella Ciao cantata da Tom Waits avrete già sentito dire ovunque: ed è giusto così, trattandosi di una rilettura rallentata del canto partigiano tanto personale da farne una specie di “nuova versione ufficiale”, di quelle che faranno sembrare strana ogni altra reinterpretazione futura. Ma c’è altro, molto altro: la vibrante We Are Soldiers In The Army, cantata da Fay Victor e trafitta da ululati di sax; la bellissima The Militant Ecologist, interpretata da Meshell Ndegeocello e basata sulla melodia di Fischia Il Vento; una Rata De Dos Patas in cui a inveire contro Donald Trump è una cantante rimasta anonima, per timore di ritorsioni e del ritiro del permesso di soggiorno.
Su tutto, però, brilla la stella di Srinivas, folk-rock da brividi suonato con Steve Earle in cui si narra la storia di Srinivas Kuchibhotla, ucciso a colpi di pistola insieme a un altro uomo di origine indiana da un cinquantenne americano che urlava “terroristi”, fuori da un locale di Austin. Ma avrebbe potuto essere chiunque, dice la canzone, ed è questo che succede quando violenza, razzismo, omofobia e sessismo sono espliciti nelle parole e nei gesti delle più alte cariche dello Stato. Ribellarsi a tutto questo odio, cantare più forte: questo è quello che dobbiamo fare anche noi.