Master Of Puppets | Controllo, ossessione, dipendenza
THE MEMORY REMAINS
Nell’autunno 1997, su MTV prese a girare il video di una band che avevo sentito nominare ma mai ascoltato: suonavano su un piano rotante, e c’era questa strana vecchina dalla voce inquietante – pure lei non sapevo chi fosse, ma Google esisteva solo da un paio di mesi.
Loro erano i Metallica, l’ospite si chiamava Marianne Faithfull e la canzone The Memory Remains, decisamente la cosa più pesante che avessi mai sentito – Wikipedia mi ricorda che uscì proprio il giorno del mio quattordicesimo compleanno. Non sapevo si chiamasse “metal”, quel suono, ma di sicuro io l’avrei definito “heavy” se allora avessi usato l’inglese per parlare di certi argomenti; ma di riviste di musica non ne arrivavano, a Montodine, fratelli o sorelle maggiori non ne avevo e non potevo nemmeno immaginare che esistessero legioni di indignati per il corso recente della band.
La settimana dopo andai a comprarmi la cassetta che la conteneva: The Memory Remains era la seconda traccia di Reload, un lavoro di durata omerica che stuzzicava le mie precoci inclinazioni geek – non c’era il minutaggio, nel libretto, e allora mi dilettavo nell’arte del cronometraggio dicendomi che se un gruppo pubblicava un album così lungo doveva per forza avere molto da dire.
Lo ascoltai emozionato con una cugina, che però fu abbastanza fredda: diceva che a lei piaceva di più un vecchio disco con la copertina nera – “quello con Enter Sandman”. A me continuava a sembrare molto bello e strano e rumoroso – e loro, dalle foto, stilosissimi e inavvicinabili – tant’è che quando l’anno dopo mi comprai un lettore CD acquistai una copia di Reload, che prestai subito a un compagno di classe molto esperto, sperando in una sua reazione positiva.
Non andò bene per niente, ma Giovanni mi passò a sua volta una cassetta registrata: “ascolta questa, questi sono i veri Metallica” – a quanto pareva, ne esistevano anche di falsi. Sulla costa, il titolo e l’anno di pubblicazione: Master Of Puppets (1986); sul retro solo otto titoli, quattro per lato di una C60. Niente timing, però, per quello mi sarei dovuto arrangiare.
Tornato a casa da scuola, chiusi la porta della stanza, infilai la cassetta nel mangianastri; quaranta secondi di chitarra classica e poi un mattatoio: avevo imparato da qualche tempo a conoscere il volume e la pesantezza in musica, ma non avevo ancora incontrato la pura violenza.
Non sapevo nulla di generi, stili, strutture.
Sapevo solo che quella roba mi faceva paura.
HIT THE LIGHTS
James Hetfield e Lars Ulrich si incontrano nel 1981 – il primo è già un gran chitarrista ritmico, il secondo un tennista di buone speranze convertito in batterista. Hanno entrambi diciotto anni, e questo già fa capire quanto questa band sia un’esperienza di vita all-encompassing per chi l’ha creata più che per chi l’ha ascoltata e amata/odiata nel corso dei decenni.
È Ulrich a sceglierne il nome – rubandolo a un amico che lo stava valutando per una fanzine sulla New Wave Of British Heavy Metal – ed è sempre lui a convincere il capo della Metal Blade Records a includere un brano dei Metallica nella compilation Metal Massacre. Piccolo particolare: quando il batterista vende il brand, la band non esiste ancora.
Incidono in trio – con un certo Lloyd Grant alla chitarra solista – un pezzo che di fatto è tutto il loro repertorio e che fa subito scuola: Hit The Lights è il loro primo biglietto da visita insieme al demo No Life Till Leather, completato con una formazione a quattro ma ancora in versione beta – Dave Mustaine alla chitarra, Ron McGovney al basso. Quella che registra l’esordio Kill’em All, invece, è la lineup storica, con Kirk Hammett – shredder dal gusto melodico hard-rock più che metal – e il bassista Cliff Burton – una specie di hippie fuori dal tempo, appassionato di rock come di classica e jazz e musicista dalla tecnica selvaggia.
E lo so che sembra ancora oggi buffo scriverlo per un disco che si chiama “ammazziamoli tutti” – e che solo la paura della censura risparmiò dall’ancora più idiota Metal Up Your Ass – ma Kill’em All è uno degli album più influenti del Novecento. Diciamo che vale quanto un Bitches Brew per il jazz, un Autobahn per l’elettronica, un Highway 61 Revisited per il rock, un It Takes A Nation Of Million To Hold Us Back per l’hip-hop: un’opera che inventa qualcosa che non si era mai sentito prima.
Vero è che la storia non procede per disruption ma per step evolutivi – con buona pace degli startuppari fissati con il microdosing – e che qui dentro si sentono chiare parecchie influenze: i Motorhead, i Diamond Head e il resto della NWOBHM, la velocità dell’hardcore-punk californiano. Ma l’output è decisamente superiore alla somma delle parti e tutte le ibridazioni fra punk e metal che seguiranno trovano qui la propria origine.
Di fatto l’invenzione del thrash metal, Kill’em All offre brani fondativi che vanno ben oltre la Hit The Lights posta in apertura: la cavalcata The Four Horsemen, una delle poche tracce a presentare un qualche tipo di accenno melodico; quell’uragano di palm mute e downpicking chiamato Whiplash; il leggendario, turbinoso assolo di basso di Burton in Anesthesia (Pulling Teeth), fantasia impro cui nessun’altra band di genere saprà neanche lontanamente avvicinarsi; l’omaggio a Lemmy di Motorbreath, di ignoranza pari solo al modello originale; il cadenzato sferragliare di Seek & Destroy.
Il valore strumentale dell’album è palese, nonostante la produzione da due soldi – la mano destra di Hetfield farà da modello per generazioni di imitatori, tra i chitarristi ritmici – ma pure le liriche, nella loro sublime scemenza, sono significative. Parlano sostanzialmente di sangue e metal e sono scritte da un diciottenne introverso e zeppo di testosterone e birra; eppure sono uno strumento per creare una fanbase, un seguito, una comunità: il dichiarare un’appartenenza, il riconoscersi parte di una cerchia di affini, è l’essenza di Kill’em All.
Passa un anno, esce Ride The Lightning ed è già cambiato tutto.
L’atmosfera è plumbea, le distorsioni titaniche ammantate di un’introspezione monomaniacale: se l’esordio era una sbronza in una serata estiva, qui la post-adolescenza è completamente congelata in un inverno di terrore.
Il terrore dell’apocalisse nucleare che accende il massacro sonico di Fight Fire With Fire, il brano più estremo concepito dai Metallica fino a quel momento; l’incubo della sedia elettrica della title-track, modello giusto un filo acerbo per le elaboratissime cavalcate che daranno il titolo ai due album successivi; la pulsione suicida della maestosa power-ballad Fade To Black, dissolvenza in nero immaginata per sé da un ragazzo di vent’anni; il terrificante tempo medio For Whom The Bell Tolls con citazione da Hemingway, anteprima dei Metallica adulti.
Chiude The Call Of Ktulu, ed è il vertice dell’opera. Non solo perché si tratta di una sinfonia strumentale di nove minuti inimmaginabile appena un anno prima, ma anche perché la band mostra un’agghiacciante maturità nella gestione e nel rilascio di una violenza tutta psicologica, che fa percepire l’esistenza di qualcosa di spaventoso e oltre-umano per cui le parole non basterebbero.
The Call Of Ktulu è l’orrore che non si può dire, Lovecraft che si fa suono.
OBEY YOUR MASTER
Trentacinque anni dopo, ascoltare Master Of Puppets è ancora un’esperienza frastornante, una madeleine capace di riportare alla mente il ricordo vivido di quei giorni adolescenti passati ad ascoltare una cassetta che non girava mai alla stessa velocità.
Per molti – me compreso – il terzo dei Metallica è il più grande album heavy-metal mai inciso; ma qui siamo ancora nei campi dell’opinione e della statistica, che con l’emozione della scoperta hanno poco a che fare.
Quel nastro duplicato sul finire del millennio ci mise pochissimo a farsi colonna sonora di pedalate furiose e solitarie verso nessun luogo in particolare, a sfidare i cieli bassi della pianura e quelli insondabili del mio umore ballerino. Non si può dimenticare la prima volta in cui si rimane soli con un’emozione inaspettata, e io non potrò mai scordare quelle che da ragazzo mi regalarono queste otto canzoni assolute: la paura, l’angoscia, la malinconia e, insieme, il senso di onnipotenza.
Master Of Puppets nasce nel corso del 1985, figlio di un’ambizione e di un perfezionismo asintotici all’ossessione. Le registrazioni con il produttore Flemming Rasmussen in Danimarca si portano via quasi quattro mesi, ma il salto qualitativo del sound della band è impressionante; a monte c’è uno straordinario lavoro compositivo, con Hetfield e Ulrich – “il politburo dei Metallica”, nelle parole di Pitchfork – chiusi per un tempo infinito in garage a smontare e rimontare i pezzi prima di proporre il materiale a Hammett e Burton.
Non so se vi sia mai capitato per le mani il mastodontico box-set celebrativo uscito per il trentennale, un’operazione archivistica che fa strippare chiunque abbia un animo da bibliotecario. Bene: ho passato giornate intere, su quel tesoro, ad ascoltare il progredire dei riff di Hetfield, demo dopo demo. Sempre più taglienti, sempre più precisi, fino a trovare l’incastro perfetto: negli interstizi tra una pennata e l’altra, la sensazione è che già nei primi giorni di prove il nostro immaginasse già esattamente cosa dovesse stare in quegli spazi temporaneamente vacanti. È la ragione per cui il songwriting di questo album suona così inevitabile; una focalizzazione e un’attenzione al dettaglio impressionanti, se si pensa che l’età media dei musicisti al tempo delle registrazioni era di ventidue anni.
Formalmente, questi cinquantaquattro minuti possono essere considerati una naturale prosecuzione del discorso intrapreso con Ride The Lightning. Del resto, anche a livello strutturale, quello è ancora oggi il blueprint del disco perfetto dei Metallica: l’assalto frontale dell’opener, la title-track chilometrica, il mid-tempo cingolato, la ballata che parte lenta e come una valanga acquista massa e velocità al procedere. Alla fine, Master Of Puppets si limita a sparigliare le carte giusto nelle ultime due tracce: se Ride The Lightning chiudeva con un inno da moshpit come Creeping Death e uno strumentale eccezionale, qui si ribalta la prospettiva, dando per un attimo l’illusione della quiete ma chiudendo poi nel sangue.
Storicamente, quindi, si potrebbe ragionare di questo album come di un’evoluzione. Ma tutto è così super-espanso e portato a volume undici, in Master Of Puppets, che ogni discorso in questo senso regge giusto il tempo dell’introduzione acustica di Battery, prima che un’onda anomala di elettriche armonizzate ci conduca al tema portante, accartocciarsi di lamiere che ancora oggi riporta a galla quella paura ignota. Il riff impossibile di Battery non è solo percussivo e violento – Hetfield ha sempre detto di voler suonare la chitarra come una batteria. No: quel riff è anche cinico, quasi sadico, una stretta alla gola in una stanza buia senza che tu abbia nemmeno tempo di chiedere pietà o anche solo “perché”.
Master Of Puppets, la canzone, spalanca una voragine sul buio della dipendenza.
La struttura è la stessa di The Four Horsemen – due strofe con ritornello, una parentesi ricca di spunti melodici, ritorno al tema principale – ma la tensione narrativa che questo brano mantiene per otto minuti e mezzo lascia stupefatti. Ogni singola pennata di Hetfield suona memorabile, mentre il drumming di Ulrich colora il pezzo più che stravolgerlo di colpi come farebbe qualunque altro fanatico della doppia cassa. Checché ne dicano i loggionisti metal, il congegno ritmico di Master Of Puppets è straordinario, dal tempo difficilmente calcolabile – 21/32 involontari, dicono in un bel video da nerd – al gusto nei fill; non un batterista eccezionale, Ulrich, ma quello perfetto per questa band: alla velocità, all’elasticità e alla precisione, qui, ci pensano le chitarre.
Master Of Puppets è in pratica un saggio sull’uso della sei-corde nel metal, dal palm mute ai power chords, dall’assolo incendiario di Hammett ai glissando lacrimevoli del break centrale – che per sempre saranno associati ai lunghissimi pomeriggi spesi a contare i pixel sullo schermo del mio primo computer e alla neve di un videogioco che aveva per tema le Olimpiadi invernali. E se il testo non bada proprio a sottigliezze – “chop your breakfast on a mirror” / “you’re dedicated to how I’m killing you”: difficile non capire di quale dipendenza si parli – questa epopea riesce pure a essere incredibilmente rappresentativa, attraverso il puro suono, di uno dei temi centrali dell’opera: il controllo, e poi l’angoscia di fronte all’abisso che è perderlo.
Così, il disorientamento al cospetto di un ignoto ancora una volta lovecraftiano di The Thing That Should Not Be – paradigma di tutti i mid-tempo meno riusciti di questo che riempiranno i lavori dei Metallica dal 1991 in avanti – si esplica in una progressione di accordi instabile quanto le scale orientaleggianti dell’ennesimo solo di Hammett. Ispirata dalla lettura/visione di Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo, Welcome Home (Sanitarium) è invece il prequel di One: il flusso di coscienza – rassegnato, paranoico e poi sempre più rabbioso – di un uomo chiuso in un istituto psichiatrico trova il proprio soundscape in una strofa pulita, da ballata, e nella distorsione abnorme del chorus e della fuga finale; ennesima composizione perfetta, a dirla tutta Sanitarium non può competere con il trasporto emotivo di Fade To Black – la prima persona, là, era reale.
Il primo lato dell’album finisce così, e alzarsi per andare a girare il vinile è d’aiuto: bisogna tirare il fiato, aprire le finestre e assicurarsi che il mondo fuori esista ancora e non sia invece brullo nulla. Perché la seconda metà sarà nuova devastazione.
BLOOD WILL FOLLOW BLOOD
In tutta la mia vita pre-Covid da assiduo frequentatore di concerti sudati, i Metallica sono l’unica band del cuore che manchi all’appello – ci sono andato vicinissimo nel tour di tre anni fa, quando passarono da Bologna, ma alla fine non se ne fece nulla. Non so cosa verrà dopo, e non so se la band – nonostante la gran forma mostrata nelle ultime uscite – vorrà proporla, ma è certo che Disposable Heroes mi farebbe esultare pugni al cielo.
Furiosa macchina di morte che si dipana lungo più di otto minuti, questo brano è probabilmente il longform più violento nell’intero catalogo della band che affronta nell’unico modo possibile – sventagliate di double bass drum senza preavviso, chitarre come fucili mitragliatori, ordini abbaiati da un microfono come fossimo in Full Metal Jacket – il tema della guerra, vista attraverso gli occhi sbarrati di un soldato al fronte e di quelli dei suoi aguzzini, i generali che lo mandano a morire. È troppo, Disposable Heroes: dà l’idea di non poter lasciar crescere più un filo d’erba dopo di sé, come quegli heroic bloodshed di John Woo – penso a Bullet In The Head – in cui la violenza è tanta e così brutale da implicare una catarsi che si esaurisce in se stessa.
Ne sono consapevoli pure Hetfield e Ulrich, che infatti per il quarto d’ora successivo abbassano i bpm, a cominciare da Leper Messiah – panzer militaresco che parla del televangelismo dilagante negli States degli anni Ottanta e che suona anche sinistramente autobiografico per il frontman, la cui madre, cristiana scientista, morì di cancro rifiutando ogni cura.
Tocca poi a Orion, che per tante ragioni è sempre stato considerato lo strumentale meno groundbreaking dei primi quattro dischi dei Metallica ma che io porto nel cuore come il più bello e toccante – io e mia madre, anzi: una volta, giocando a un gioco tetro in cui sceglievamo la musica per i rispettivi funerali, ci trovammo d’accordo su questa colonna sonora. Sono altri otto minuti – gli unici, se non erro, nati almeno in parte in studio di registrazione – che hanno la delicatezza di un balletto: sentite il giro di basso che come un direttore d’orchestra detta tempi e modi al resto della band nello stacco centrale, guidandola fino a scovare una melodia trionfale.
Chiude Damage, Inc., nomen omen: un treno hardcore ad alta velocità che vede la fine del binario e compiaciuto accelera fino allo schianto, invece di aggrapparsi ai freni. Sfogo crudele e insensato, il pezzo si apre con un altro saggio di classe di Cliff Burton, riverbero etereo che anticipa l’entrata del resto della band – un’esplosione atonale di vetri rotti, l’equivalente dell’Henry Rollins di copertina di Damaged.
I Metallica sono all’apice della carica giovane, e letteralmente masticano e sputano l’ascoltatore. Nella carriera di ogni band c’è un momento esatto in cui, a posteriori, si riesce a definirne il picco mai più superato e insieme l’inizio della discesa. Hetfield, Ulrich, Hammett e Burton hanno solo ventitré anni ma sembrano saperlo bene: vista da qui, a decenni di distanza, Damage, Inc. ha l’aspetto di una decisione consapevole di far saltare per aria tutto quando si è ancora nel pieno delle forze.
L’avevo detto: la password per Master Of Puppets è “controllo”.
TIME MARCHES ON
L’inizio della seconda vita dei Metallica, quella che non racconterò, ha una data precisa.
È il 27 settembre 1986: la band è in tour in Svezia e il bus su cui sta viaggiando esce di strada; Burton, che sta ancora dormendo, viene sbalzato fuori dal finestrino rimanendo ucciso all’istante – saranno i compagni a trovarne il corpo senza vita sotto la vettura, e quando critici e fan valutano le mosse successive di tre venti-e-qualcosa senza tener conto del fatto che hanno appena visto un amico morire davanti ai propri occhi direi che stanno perdendo un pezzo significativo della faccenda.
I Metallica continuano con la benedizione dei genitori di quel fenomenale bassista, ma le cose non saranno mai più le stesse: con Burton viene a mancare il puro genio melodico e non-metal, sebbene in realtà il songwriting, sia prima che dopo la tragedia, fosse faccenda quasi esclusiva di Hetfield e Ulrich; reclutano il fan Jason Newsted, che rimarrà per quattordici anni senza mai riuscire davvero a rimpiazzare il predecessore.
Ne passano due ed esce un disco perfettamente consequenziale: And Justice For All è il seguito di Master Of Puppets, apparentemente un’ulteriore evoluzione. I pezzi sono ancora più intricati: alcuni sono indimenticabili, e almeno Blackened, Harvester Of Sorrow e To Live Is To Die si aggiungono al repertorio maggior della band.
Eppure qualcosa, in Justice, non torna. Se le polemiche sulla produzione non sono poi così significative – personalmente, quel suono gelido e chirurgico l’ho sempre trovato funzionale al mood neropece dell’opera – è la scrittura, qui, il problema: certe tracce, semplicemente, non girano come dovrebbero. Se Master Of Puppets apriva parentesi tenendo sempre bene a mente l’obiettivo, in And Justice For All a volte proprio si perdono di vista il centro della composizione e perfino il piacere dell’ascolto.
È ancora grande metal e perfino Simon Reynolds apprezzerà, ma siamo già altrove rispetto all’immortale trittico d’esordio. Anzi, è proprio il principio di un’altra storia: una storia di tradimenti artistici e abissi personali, ripensamenti dolorosi e insperate rinascite; una storia lunga trentacinque anni da una band che ne aveva impiegati tre – e tre album – per inventare mondi. E come per l’Ozymandias di Shelley, ascoltando quella furia elettrica di cui non si riuscirà più a eguagliare la grandezza, si può solo disperare.
Autore: Metallica
Titolo: Master Of Puppets
Etichetta: Elektra
Durata: 54’
Anno: 1986