Perché i Marta sui Tubi servono alla musica italiana
Immaginate un deserto.
È mezzogiorno, ci sono 852 gradi all’ombra, peccato che nel deserto l’ombra non esista quindi i gradi sono in effetti 1.132 che è la temperatura a cui fonde l’uranio (ho visto Chernobyl da poco, son preso bene) quindi figuratevi voi come potete sentirvi.
Siete con la sabbia fino ai polpacci, ogni passo vi costa una quantità di energia che è insostenibile nel lungo periodo.
Volete acqua da bere.
Volete una piscina, volete una doccia, volete aria fresca e vi manca la neve, è da tempo che non vedete la neve. Invece vi guardate attorno e c’è solo sabbia, è tutta uguale, ce n’è a perdita d’occhio.
Poi, un miraggio.
Vi voltate di scatto, ma è il logo della Levissima quello? Ma sono bambini che si tuffano felici da un trampolino e l’acqua bagna le signore ingessate a bordo vasca?
Non può essere, ma tanto cosa avete da perdere?
Andate a controllare, la passeggiata più lunga e speranzosa della vostra vita.
Non era un miraggio. Avete trovato l’oasi.
Ecco, a parte i sintomi inequivocabili di una sindrome da surriscaldamento cerebrale, vi ho appena descritto cosa sono i Marta sui Tubi per la musica italiana.
Superato Puccini, da Orietta Berti a Ligabue passando per i Litfiba, Cesarone Cremonini, sarò blasfemo ma io ci metto dentro anche i tanto amati Afterhours che vi prego basta, questo grande contenitore di accordi e melodie è tutto sommato ascrivibile a due grandi filoni (la sabbia di cui sopra): quelli che fanno rock e quelli che fanno pop.
Fine.
Okay, okay. Vi sento già rumoreggiare dalle retrovie: “E la PFM? E i grandi cantautori? E i marò?”. Avete ragione, oh del resto io sono uno che ascolta più note italiche che straniere, questo mica è un articolo esterofilo. State calmi.
Sto solo dicendo che, PFM compresa, la musica tricolore è una serie infinita di esercizi di maniera.
E poi i Marta sui Tubi, una band che ha deciso che delle maniere se ne sbatteva e per un buon decennio ha fatto, scritto e cantato solo ciò che gli pareva, che fossero ballate strappalacrime o inni punk da far rizzare i capelli.
Quante cose ci hanno insegnato? Un milione, o forse solo una ma completamente inaspettata: la libertà di poter essere italiani e imprevedibili, in musica.
Pronti via, schiacciamo play al disco numero 1, “Muscoli e dei”.
Ma chi lo scrive un primo disco così?
C’è dentro Vecchi Difetti, che è una delle ballate acustiche più belle di sempre, con buona pace di Leggero e Una canzone per te.
Poi avanzi di una traccia e parte Stitichezza Cronica: Giovanni Gulino che legge articoli di giornale fino a impazzire sovrastato dalla cronaca su una base sempre più folle e ansiogena.
Sei Dicembre e Il giorno del mio compleanno ci fanno ammirare Carmelo Pipitone alla chitarra, mentre accompagna narrazioni fra il nonsense e l’assurdo.
E Post? Un’aria da noir, un arrangiamento appoggiato su se stesso che piacerebbe ai For Carnation, e un testo leggerissimo.
Dimmi, dimmi, dimmi
Com’è stato masturbarti col mio pene?
Quasi come per me una sega fra le tue gambe
Dopo 11 canzoni non sappiamo ancora questi che genere fanno, sappiamo solo che sono credibili sempre e fuori luogo mai.
Proviamo a fare chiarezza e mettiamo uno shuffle sul resto della discografia, una sorta di best of commentato a piè di pagina.
Una sera stavo cercando di imparare Perchè non pesi niente alla chitarra, ma non trovavo il tempo. Era 4/4? Erano 6/8? Ma quella lì in mezzo era una battuta da 5/8?
Disperato, al concerto successivo fermo Carmelo e gli chiedo: “Melo, ma in che tempo è Perchè non pesi niente?”.
Mi guarda, ci pensa, mi fa: “E che ne so io, l’abbiamo scritta così e la suonavamo tutti insieme in una stanza… non ci mettiamo a contare, è musica!!”.
Bastasse questo, ma cosa dire del testo nel finale?
Caro Marco,
ti scrivo dal profondo del mare,
nascosto dentro un giardino di coralli
a riparo dagli squali
ma invisibile per le sirene
Quando ne ho voglia
alzo gli occhi e guardo il sole
attraverso un milione di miliardi di metri cubi d’acqua
e finalmente non mi bruciano più gli occhi
Salto carpiato, mettiamo in loop L’unica Cosa e iniziamo a pogare tutti insieme. Ma questi non erano un trio batteria chitarra e voce? Perchè suonano a 432 bpm e mi urlano in faccia? Non capisco.
Il manifesto musicale dei Marta è tutto qui: l’unica cosa che devi fare è massacrare le tue paure. Smettiamola di volere punti di riferimento, smettiamola con i giri di accordi triti e ritriti, smettiamola con le rime fatte sempre di parole tronche. Massacriamo le nostre paure e liberiamoci.
Lucio Dalla disse, qualche mese prima di morire, che erano la migliore live band italiana. E per la serie endorsement con le palle, registrò pure un featuring su Cromatica, altra ballata italianissima e allo stesso tempo completamente nuova, come il petto quando ci metti il Vicks.
C’ero, quella sera al teatro del Navile di Bologna. Lucio non stava mica scherzando, stava tra il pubblico ad ascoltare come un fan sfegatato, era entusiasta.
Ci sono, nei Marta, anche una serie infinita di divertissement che sembrano filler ma rinforzano ancora quella filosofia di libertà che hanno. Penso a Camerieri, più teatro che musica, racconto puntualissimo di due stereotipi italiani quanto un film dei Vanzina. Oppure quella genialata di Le cose più belle son quelle che durano poco. O ancora Arco e sandali, Volè, Muratury. Il coro di voci bianche di Non lo sanno.
Completo questo piccolo viaggio con qualche citazione, chè i Marta sono anche una raccolta di slogan che portano quasi sempre a riflessioni amare.
Io non ho sentimenti, solo sensazioni
(Post)
La paura degli esseri umani è paura di essere umani
(Dio come sta?)
Rifiutare le proprie ossessioni
è come sbucciarsi con un coltello senza lama
ci metteresti troppo tempo
e poi, a che prezzo poi?
(Grandine)
Mi giudicheranno i colpevoli
Ma meglio un eroe morto o un vigliacco in catene?
(Carne con gli occhi)
Non è tutto bello, nei Marta sui Tubi.
Ci sono anche cose dimenticabili, ma sono sempre nell’ottica di chi ha il coraggio di non ripetere una formula vincente, più che una mancanza di cose da dire e da scrivere.
Va fatto però un piccolo appunto, che a sua volta mette in luce un altro insegnamento fondamentale che ci lasciano.
Parliamo di musicisti e di un cantante/paroliere di livello sopraffino, superiore, elevatissimo. Carmelo fa delle chitarre tutto ciò che vuole. Giovanni è un cantante capace di risultare credibile nel rappare per poi sfoderare un’estensione vocale da brividi. Parliamo di un trio che ha scelto di non avere il basso e nessuno ne sente la mancanza, visto che sopperiscono benissimo con il resto.
Come a dire che per plasmare la materia musicale come argilla, per essere liberi e coraggiosi e imprevedibili, dobbiamo suonare e studiare fino a farci sanguinare le mani e attendere che l’ispirazione faccia il resto.
Le scorciatoie lasciamole a Tommi Paradiso, che ha messo su una fabbrica di canzoni sul modello fordista e, tutto sommato, non gli riesce nemmeno così male.