Contro la leggerezza e i risvoltini. Quanto ci mancavano i Maisie
Tutti possono fare quel che vogliono, autoproducendosi, autodistribuendosi, autopromozionandosi. Potresti fare canzoni con rutti e bestemmie, se ti andasse. Libertà totale. Non sei obbligato al pop o alle melodie rassicuranti: puoi sperimentare, osare, contaminare Stockhausen con Bruno Lauzi. In teoria suona meraviglioso, no? Peccato che nella pratica non stiamo assistendo a nessuna anarchica esplosione di creatività. La fantasia non è andata al potere. Si dovrebbe prendere atto che questa democrazia dal basso sta producendo tanta miseria culturale e un conformismo spaventoso.
Annuivo convintamente, leggendo l’intervista ai Maisie sul Mucchio Selvaggio di marzo. Un po’ perché sono vecchio e quei discorsi lì (“quand’eravamo giovani noi c’era l’underground vero e si saltavano i fossi per lungo”) li condivido da tempo, ma soprattutto perché nelle parole del duo storico del progetto – Alberto Scotti (deus ex machina) e Cinzia La Fauci (voci, tutte quante) – c’era una voglia elettrificata di tabula rasa totalmente giusta e contagiosa. Una voglia di far saltare per aria un Paese che – particolarmente in questo preciso momento storico – ha la capacità di sabotare qualunque concetto di peso: “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”, riassumeva magistralmente Boris, serie che più di ogni altra ha saputo raccontare una certa idea di Italia.
Il risultato di tanta bile è Maledette Rockstar, che arriva a nove anni da Balera Metropolitana e a quattordici da Morte a 33 Giri (il loro primo in italiano). Un tour de force allucinato di due ore e mezza e 31 canzoni, che vedono Scotti e La Fauci alle prese con un mastodontico affresco sociopolitico che viviseziona e sbeffeggia almeno l’ultimo trentennio di storia italiana; ad accompagnarli, decine e decine di ospiti: ci va di citare almeno l’eroico Bruno Dorella (Wolfango, Ronin, Bachi da Pietra), la rockettara delusa Carmen D’Onofrio, i mille personaggi chiusi nella voce di Emiliano Rubbi. C’è perfino Piotta, al quartultimo pezzo, se avete la pazienza di aspettarlo.
Avete sentito questo pezzo? Avete visto questo video? Una parodia – in salsa Bertè – della groupie e della rockstar insieme (ce n’è una, evirata, proprio sulla splendida copertina), che arriva subito dopo un’introduzione che ci ricorda quanto siano orribili i meravigliosi tempi in cui viviamo (“un mondo senza conflitti sociali, né noiosi dubbi esistenziali”).
Prende le mosse da qui, il genio distruttore dei Maisie, per mettere alla berlina tutto ciò che abbiamo scelto di rendere simbolo e, parallelamente, rendere palese la maniera tutta nostrana di disinnescare le icone culturali: Fabrizio De André, nel quadretto per voci, mani e rumori-con-la-bocca di Sono Sempre i Migliori che se ne Vanno, è ridotto a un santino buono per ogni occasione e partito politico, uno che “pregava molto e andava a votare / e mica per i comunisti / votava per la DC”; nei nove minuti della pazzesca Certe Notti, una fan di Ligabue perde la verginità con l’uomo di Correggio (d’altra parte, lei “sogna di vivere a Correggio: a me piace perché ci è nato lui”), che approfitta di lei per poi abbandonarla per sempre. Un pezzo, quest’ultimo, paradigmatico dell’intero album, per il modo in cui sa cambiare passo in un battito di ciglia e infila un’invenzione lirica via l’altra; non ascolterete un’altra strofa come questa per molto tempo, garantito:
Buzzurro sudato, collana, bracciale,
una moltitudine di braccia.
Liga amatore instancabile,
poeta ribelle, conturbante presenza:
Poltergeist Emiliano-Padano
E tutto l’album è così, senza freni: il divertentissimo bubblegum italo-ammeregano di Io Sono una Rockstar (“Ah, mi dite che vaneggio? Che per il rock è finito il tempo del mercato opulento?”) e Ozzy Ha un Nuovo Pantalone va a braccetto con gli ottanta secondi di pura devastazione Zorn di Un Programma Politico Sintetico, che a sua volta sfocia nella marcetta folk del Saggio Breve.
In molti casi si prendono a prestito titoli storici – Benvenuti in Paradiso, Dio è Morto, Siamo Solo Noi, La Canzone di Marinella – giusto per il gusto di crivellarli di colpi, mantenendo però in qualche modo agganci con gli originali (gli svolazzi vocali di Aria sanno richiamare quelli del capolavoro di Sorrenti). L’apice del Grand Guignol politico dei Maisie si raggiunge però nei quattro minuti e mezzo di Folkpolitik, appropriatamente sottotitolata The Vittorio Sgarbi’s Torture Show e in cui compaiono Sandro Bondi (“Studia! Leggi De Sade! Capra!”), Renato Brunetta (“quanto mi fa ridere il nano”), Ghedini, Sgarbi: “Oddio! Sembra un film di Mario Bava”, dice a un certo punto qualcuno. Ed è vero, perché qui non si parla di orrore o si assiste a un film dell’orrore: si è parte dell’orrore, e non c’è altro intorno.
La seconda parte dell’opera non molla la presa nemmeno per un secondo: Wilma e il Diavolo è l’ennesima mini-suite di sogni minuscoli e comunque infranti; Padre Pio Kung-fu Master mette in scena un match tra Matteo Messina Denaro e Padre Pio (“sono un santo d’azione, io, mica una femminuccia come Don Bosco”); Morire a Colazione, mentre si fa beffe della melodia ampia e facile tipica della canzone italiana, ne regala una nuova e memorabile su un ritornello di presa immediata. E appropriatamente, dopo trenta canzoni, non può che essere un brano come War! a chiudere le danze:
Le canzoni non servono a niente
e io mi sento una deficiente
quando mi sforzo di scriverne una intelligente,
che racconti qualcosa
di socialmente rilevante.
Se le canzoni servissero a qualcosa,
dopo “La guerra di Piero”,
non ci sarebbero più state guerre
e, invece, ci sono ancora!
So quel che dico, fratello:
le canzoni non servono a niente!
Anarco-pulp / art-rock / folk-prog: se amate le definizioni, questa potrebbe essere quella più adatta a descrivere il contenuto di Maledette Rockstar. Io, per parte mia, vi dico che in Italia ho sentito davvero poche cose anche solo lontanamente paragonabili ai lavori dei Maisie: ma se siete stanchi di ascolti livellati e intercambiabili e vi mancano la follia dei primi Elio e Le Storie Tese e il gusto per la provocazione intellettuale dei CCCP di Epica Etica Etnica Pathos, questo è l’album che fa per voi. Solo che qui è come se le chiavi del circo fossero state tolte di mano a Ferretti per essere consegnate a Fatur, senza nemmeno un’Annarella a rendere meno truce lo scenario.