Madame George, Mastro Lindo e i black bloc

Madame George, Mastro Lindo e i black bloc

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La verità dei fatti e i fatti di verità

Nel momento in cui mi accingo a scrivere sono passati quasi 47 anni dall’uscita di Astral Weeks di Van Morrison. E appena pochi giorni dal gran puttanaio di Milano.

Ora, dal momento che dire la propria sui fatti avvenuti non è obbligatorio, soprattutto se il commento dev’essere “minchia, ciè, se vi trovo per strada vi spacco, vi do fuoco, vi lamo, siete delle merde, dovete morire, ciè, bo, facciamo tavolo all’armani, bordello, non toccarmi l’ano”, ho deciso che non dirò la mia. Anche perché stiamo qua a parlare di musica e non a esprimere idee paralimpiche alla rinfusa. Del tipo che se non me ne è mai fregato niente del mio condominio e anzi di solito piscio sul pianerottolo di quelli di sotto, non mi metto a fare Mastro Lindo da un giorno all’altro. [Quanto è nazi Mastro Lindo?, me ne rendo conto solo ora].

Dicevo, quindi: non scriverò nulla a riguardo (immagino sopravvivrete ugualmente); mi limiterò a proporvi un collage di pensieri che Lester Bangs¹ partorì su Madame George di Van Morrison, brano contenuto in Astral Weeks, lp tra i più celebrati di sempre nella storia della musica leggera. Mica per niente.

Del resto i buoni artisti copiano, i grandi fanno Ctrl+C Ctrl+V.

Mastro_lindo

Madame George è il gorgo del disco. Forse è uno dei brani musicali più ricchi di compassione che siano mai stati scritti, e ci chiede, anzi no, fa in modo che vediamo la situazione difficile in cui si trova quello che brutalmente definirò un travestito che soffre per amore, con un’empatia talmente intensa che, quando il cantante lo fa soffrire, soffriamo anche noi. (Morrison ha dichiarato in almeno un’intervista che la canzone non ha nulla a che fare con travestiti di alcun tipo – almeno per quanto ne sa lui, aggiunge prontamente – ma è una cazzata). La bellezza, la sensibilità, la sacralità di questa canzone è che non ha niente di sensazionalistico o di pacchiano, non tende a sfruttare. In un certo senso Van ha ragione quando dice che non parla di un travestito […]: parla di una persona, come tutte le canzoni migliori e le più grandi opere letterarie.

[…]

I ragazzini di Madame George sono davvero sprezzanti […]: felicissimi di andarlo a trovare quando da lui c’è musica, festa, da bere o da fumare a scrocco, e altrettanto giulivi nello sputare sui sentimenti di George quando tutto il resto finisce e comincia un inverno sepolcrale, che non si limita a vento e pioggia, ma include grandine, ghiaccio e neve.

[…]

Roba del genere ti fa venire voglia di buttarti dalla finestra del quinto piano piuttosto di doverla anche solo leggere, ma non è certo la fine del mondo: non si avvicina nemmeno lontanamente al dolore che ogni giorno si manifesta ovunque, e che tutti noi trattiamo con noncuranza, come normale routine. Forse il nocciolo della questione è: fino a che punto siamo pronti a esporci? Se accettiamo anche solo per un attimo l’idea che tutte le vite umane sono preziose e delicate come un fiocco di neve e poi guardiamo un barbone avvinazzato davanti a un portone, dobbiamo soffrire fino a sentirci una spugna che assorbe i problemi di tutti quegli altri stronzi, finché non ci sentiamo noi stessi degli stronzi, e allora mettiamo i giusti paletti. Non proviamo più nulla. Ma sappiamo che a quel punto cominciamo a morire. Allora lottiamo contro noi stessi. Qual è la quantità massima di orrore a cui possiamo permetterci di pensare? Forse persino un manichino insensibile è più saggio di chi permette ai propri sentimenti di portarlo a distruggere tutto ciò che tocca. Ma d’altra parte, inclinare di un pelo il cappello a Madame George, solo riconoscere che quella persona esiste, solo toccargli la guancia e poi tirare il fiato, probabilmente, perché prendere coscienza di dover dividere il mondo con lui alla fine è davvero intollerabile, significa fare soltanto il primo passo. Prendere coscienza di essere vivi è quasi altrettanto meschino, esaltante, intollerabile e ambito. Per favore, tornate un’altra volta e lasciatemi in pace. Ma quando saremo soli potremo parlare finché vorremo dell’universalità di quell’abisso: non fa alcuna differenza, chi è più in alto incontra chi è più in basso solo in occasione di qualche soccorso falso, una specie di Unicef per i parenti, e cosi graffiamo e sputiamo e imprechiamo con violenta rassegnazione contro la dura realtà del fatto che non possiamo fare proprio nient’altro, se non finire per rifiutare chiunque stia soffrendo più di noi. In un momento del genere, persino fare un altro respiro è un tradimento. Ecco perché abbandoniamo le nostre battaglie progressiste, lasciamo che l’umanità sofferente muoia in un degrado ancora peggiore di quello che la affliggeva prima che ci trovassimo a passare noi. Abbiamo suscitato la loro speranza. II che ci rende più abietti della carogna più disgustosa. Più abietti dei ragazzini ignoranti che fregavano Madame George per due misere sigarette. Perché abbiamo commesso il crimine della consapevolezza, e quindi non ci siamo limitati a oltrepassare o a scavalcare il corpo di qualcuno che sapevamo sofferente, ma abbiamo anche violato la sua intimità, che è l’unica eredità rimasta ai diseredati.
Questa consapevolezza forse è la cosa più terribile che possa capitare a una persona (a una persona fortunata), quindi non c’è da stupirsi se il protagonista di Morrison ha voltato le spalle a Madame George, è fuggito alla stazione, cercando di correre il più lontano possibile da quello che aveva visto, magari anche per tutto il resto della vita.”

Che c’entra tutto questo con i fatti di Milano? Probabilmente niente. Che è un modo molto fico per dire che c’entra eccome, ma tu no, ovviamente non puoi capirlo, piccolo idiota: questo starai pensando che ti voglio significare. E invece no. Probabilmente non c’entra niente davvero.

Citando ancora Bangs, “Astral Weeks si occupa di verità, non di fatti”.

 

 

[1] Checcazzo, sul serio non sai chi è Lester Bangs? Wikipedia. Ctrl+C Ctrl+V.
“Leslie ‘Lester’ Conway Bangs (Escondido, 14 dicembre 1948 – New York, 30 aprile 1982) è stato un critico musicale e musicista statunitense. Noto per la sua scrittura anarchica e anfetaminica, non dissimile dallo stile beat, che spesso e volentieri esula dalla mera critica per lanciarsi in deliranti flussi di coscienza in cui vengono presi di mira personaggi e luoghi comuni della sua epoca, Bangs è stato probabilmente il più celebre giornalista musicale rock di sempre, oltre che un personaggio di primo piano all’interno della controcultura statunitense”.
I passi che ho raccolto in questo articolo sono stati presi dal saggio Astral Weeks, che puoi trovare nel libro Guida ragionevole al frastuono più atroce, caleidoscopica raccolta degli scritti (ritenuti) migliori di Bangs.
È tipo che te lo devi leggere, secondo me.

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