“L’universo cibo” di Ferzan Ozpetek
A voler proprio incasellare i film di Ferzan Ozpetek dentro più o meno arbitrari comparti mentali, io li dividerei in storie di convivi e storie di fornelli. Sarà che sono praticamente ossessionata da tavole imbandite, torte lucenti di glassa, piatti, pentole e arrosti fumanti, ma il fatto è che per me senza “l’universo-cibo” il cinema del regista turco-romano non avrebbe il senso che ha. Ne avrebbe un altro, ne avrebbe meno. Ma andiamo con ordine.
A vent’anni da Bagno turco, mi sento di dire con una certa sicurezza che Ozpetek è rimasto sempre fedele a sé stesso e che (nonostante questo) il suo discorso non si è affatto esaurito. Ancora nel suo ultimo film (Rosso Istanbul) si ride, si piange, si ama, si muore, si desidera, e tutto ad un livello piuttosto elevato d’intensità. È la passionalità più viscerale, che è figlia legittima della sua Istanbul, di Roma, di Lecce, in una parola, del sud.
Quelle di Ozpetek sono spesso storie corali, dove si sta in molti, spesso si sta stretti, e allora per difendere il proprio recinto di libertà ci si nasconde dentro ruoli sociali, si accumulano segreti, si recita la parte dei bravi borghesi. Ma chiaramente non è la menzogna che interessa alla macchina da presa. C’è, in tutti i suoi film, un momento di rivelazione, in cui il terremoto della sincerità arriva a demolire l’ordine delle cose. Non per niente uno dei temi portanti del suo cinema, quello della sessualità e più precisamente dell’omosessualità, è sempre incastonato in questa scena di svelamento collettivo.
Pur variando di continuo prospettiva, stile e addirittura genere, Ozpetek ha mantenuto una coerenza particolare nella materialità con cui costruisce le inquadrature di queste sequenze centrali, con attenzione soprattutto alla plasticità con cui ritrae i corpi dei personaggi. Proprio a loro, alla loro “carne”, alla loro presenza fisica sullo schermo, è affidato infatti il compito di legare emotivamente lo spettatore al film. Ecco, a voler tornare agli incasellamenti mentali di cui sopra, io questa connessione, questo contatto, lo etichetterei intimità.
Tanto in Le fate ignoranti, quanto in Saturno contro o in Mine vaganti, la sessualità si scopre intorno a un tavolo. Altro che camere da letto: seduti a pranzo l’uno accanto all’altro, con gli occhi costretti al confronto, i personaggi finiscono per affrontare la verità. Come se la condivisione del pasto imponesse loro una vicinanza più “onesta” di quello stare insieme meramente spaziale che simulano con le loro ipocrisie. Così, tra polpette speziate, piatti di pasta e dolci sontuosi ci si dichiara: in Fate ignoranti Antonia scopre l’amore del marito per Michele e s’innamora a sua volta; in Mine vaganti Tommaso aspetta la cena di famiglia per fare coming-out ma, a sorpresa, suo fratello lo batte sul tempo. A tavola, insomma, si trova coraggio.
Ma c’è dell’altro. Ci sono “i fornelli”. C’è, per esempio, La finestra di fronte.
Film “eccezione” della poetica dei convivi, qui i personaggi sembra proprio che non riescano a incontrarsi. Giovanna è operaia in una polleria industriale, ha un marito che lavora mentre lei dorme e dorme mentre lei lavora, due figli piccoli e un’amica sorniona. E poi, ha un vicino di casa di cui è innamorata ma che non conosce, che osserva dalla finestra della sua cucina come vedesse uno spettacolo muto alla tv. Insomma, qui tutti sono soli. Non basta lo spazio d’azione in comune, non bastano gli sforzi quotidiani di Giovanna per “tenere insieme tutto”, non basta nemmeno immaginare un mondo migliore, una vita che non sia così desolata. Per fortuna però arriva Davide (o forse dovrei dire Simone?): un anziano signore disorientato che dice di chiamarsi Simone, e altro non ricorda. Non sa dove abita, cosa fa di mestiere, né perché si trova lì per strada. Giovanna lo prende con sé sperando di aiutarlo a ricordare. E in qualche modo lui la memoria la ritrova. Ma non sarà tanto lei ad aiutare lui, quanto piuttosto il contrario.
Davide è ebreo, è un famoso pasticcere della capitale ed è omosessuale. Il suo amore si chiamava Simone. Ha dovuto scegliere tra la comunità e Simone, e da allora non conosce la pace. Ma Giovanna potrà scoprire la verità su Davide e ascoltare la storia solo a tempo debito, cioè quando anche lei sarà messa di fronte a una scelta. In questo film proprio come in tutti gli altri coraggio e verità sono sincronizzati con i corpi, con le passioni e con il cibo: Davide convincerà Giovanna a cucinare un dolce insieme e solo allora, davanti ad un buffet paradisiaco di torte e pasticcini, riuscirà a “toccarla” davvero, a smuovere in lei la forza necessaria a scegliere che tipo di persona vuole essere, a cambiare la sua vita e smettere di sognare.
È in questo senso che mettersi ai fornelli, fare il cibo cioè creare qualcosa con le proprie mani (non a caso, Giovanna è operaia e Davide artigiano) significa assumersi la responsabilità di arrivare in fondo alle proprie intenzioni. Nella storia di Davide e di Giovanna cucinare equivale a trovare il coraggio di rivelarsi a sé stessi, e non agli altri.
Torta agrumi e cioccolato di Davide
Ingredienti:
- zucchero 200 gr
- uova n. 5
- farina 00 120 gr
- cioccolato fondente 100 gr
- burro 190 gr
- farina di mandorle 180 gr
- lievito 1 bustina
- cacao 25 gr
per la farcia:
- philadelphia 200 gr
- zucchero a velo 40 gr
- panna liquida 100 ml
- nutella o simili 2 cucchiai
- arancia candita q.b. gr
per la glassa:
- cioccolato fondente 150 gr
- zucchero 170 gr
- acqua 70 ml
- mandarini cinesi o bucce d’arancia candita
- marmellata d’arancia q.b.
per la bagna:
- liquore all’arancia 100 ml
- zucchero 100 gr
- succo di mandarino 100 ml
La pasticceria non ha scappatoie, quindi meglio rimboccarsi le maniche e prendere un po’ di coraggio. La sfida è complicare una Sacher con gli agrumi nostrani.
Per prima cosa è meglio partire dall’impasto al cacao: separare tre delle cinque uova in albumi e tuorli, montare il burro con lo zucchero fino ad avere un composto gonfio e chiarissimo e unire le 2 uova intere e i 3 tuorli. In un’altra ciotola mescolare la farina 00 con la farina di mandorle, il cacao e il lievito; intanto mettere il cioccolato a fondere a bagnomaria. Aggiungere le farine (sempre setacciate!) poco alla volta e il cioccolato fuso, poi montare a parte gli albumi a neve e incorporarli al composto lentamente dal basso verso l’alto.
Versare nello stampo e far cuocere a 170/180 gradi. Passare nel frattempo alla crema che farà da farcia. Mescolare il philadelphia con lo zucchero a velo, la nutella e la panna semi-montata e lasciare riposare in frigo. Per la bagna invece riscaldare in un pentolino il succo ricavato spremendo i mandarini e aggiungere lo zucchero. Poi, una volta sciolto, togliere dal fuoco, unire il liquore all’arancia e fare raffreddare.
Quando il dolce è cotto e freddo, tagliarlo orizzontalmente in tre sezioni da spennellare con la bagna tiepida senza lesinare. Spalmare quindi i due strati di crema al philadelphia su cui aggiungere anche dei pezzetti di buccia d’arancia candita. A questo punto, manca solo la glassa: portare a bollore acqua e zucchero miscelati e unire il cioccolato fuso. Prima di versare la glassa ancora calda sul dolce, spennellarlo uniformemente con un po’ di marmellata di arancia. Una volta che la glassa sarà rappresa e freddata (non mettetelo in frigo, altrimenti diventerà opaco!) basta decorare con i mandarini cinesi o le bucce candite.