Mentre ancora c’è luce. I fantasmi negli album che amiamo
La morte è reale: qualcuno c’è e poi non c’è più
E non è fatta per essere cantata, non è lì per essere trasformata in arte
Quando la vera morte entra in una casa, tutta la poesia si fa sciocca
Quando entro nella stanza in cui c’eri tu e guardo nel vuoto
Tutto crolla
La prima strofa del primo brano di A Crow Looked At Me dice già tutto. Uscito al principio della primavera dello scorso anno, l’ottavo lavoro di Phil Elverum è un lamento straziante in ricordo della moglie Geneviève, morta di cancro da pochi mesi. Una maniera per ritornare al mondo, per quel che si può, con la voce spezzata, accordi sparsi e un battito ritmico che ha il suono di un respiratore: se non c’è modo di accettare tutto questo, lo si potrà solo documentare togliendosi la pelle di dosso.
Ma A Crow Looked At Me, preso per quello che è – un disco, dopotutto – è solo l’ultimo di una serie di (chiamiamoli) death album usciti negli ultimi tre-quattro anni. Forse sono io che ho iniziato a studiare davvero tardi quello che stavo ascoltando; forse è solo che, più si va avanti, più gli eroi pop/rock crescono, invecchiano e hanno a che fare con la morte – degli amici e degli amori, perfino con la propria. A Crow Looked At Me ce lo dice subito, che non si può fare della morte un’opera d’arte; è però vero che alcuni degli album più belli degli ultimi anni sono anche un tentativo lacerante di darle un senso.
“Questo disco era qualcosa di necessario per me, subito dopo la morte di mia madre – raggiungere un senso di pace e serenità nonostante la sofferenza. Non cerca di dire qualcosa di nuovo, di provare qualcosa, di innovare. Sembra non-artistico, il che è un bene. Questo non è il mio progetto artistico; questa è la mia vita.”
Lo diceva anche Sufjan Stevens a Pitchfork, ai tempi dell’uscita di Carrie & Lowell. Non è che dalla morte ci possiamo cavare qualcosa, il meglio che possiamo fare è cercare un senso per quelli che rimangono. Brani indimenticabili, senza eccezioni, e due su tutti: Should Have Known Better, in cui Sufjan racconta come abbia impedito a se stesso di soffrire, appena saputo della morte della madre; Fourth Of July, una conversazione tra madre e figlio in ospedale, in cui la ricerca di un senso si mostra come il punto focale di tutto quanto. Perché è Carrie a invitare Sufjan a fare il meglio che può, con la sua vita, mentre è ancora piena, mentre c’è ancora luce.
Non c’è nessuna luce, invece, in Skeleton Tree. Mentre scrive e registra l’album, Nick Cave è raggiunto dalla notizia della morte del figlio quindicenne, precipitato da una scogliera. La musica era già tutta pronta, le parole vengono cambiate per affrontare dolore, sofferenza, vuoto.
Benché acclamato dalla critica, il disco in sé è ben lontano dall’essere un capolavoro in termini strettamente musicali: per manifestarsi in tutta la sua potenza emotiva, c’è bisogno di vederne i brani re-interpretati nel dolorosissimo documentario One More Time With Feeling. Qui si disvela ai nostri occhi il vero senso di quest’opera: il disco, per Nick, non ha più importanza; i dettagli musicali dei brani sono lasciati quasi per intero a Warren Ellis, e mentre l’artista Cave cerca di dare un senso a versi che sembrano insignificanti a lui stesso di fronte all’enormità dell’abisso, l’uomo si strugge per tirar fuori da sé almeno un fiato di voce. Ce la fa, per poco: ma le immagini e le note, qui, sono abbastanza per dire a noi che guardiamo e ascoltiamo di stringerci finché possiamo.
Something happened on the day he died
Spirit rose a meter then stepped aside
Somebody else took his place and bravely cried
“I’m a blackstar”
Non molto sorprendentemente, la morte diventa un tema più affrontabile in senso artistico quando si deve parlare della propria. Non ci sono figli o genitori che se ne vanno, in Blackstar di Bowie o You Want It Darker di Cohen, e questo offre a musicisti ormai più che anziani il destro per colpi d’ala inattesi.
Nel gennaio 2016, due giorni prima di congedarsi dal mondo, David Robert Jones dà alle stampe il suo testamento artistico: avanguardista e teatrale sia nei suoni che nei testi. Blackstar, la canzone, è il centro dell’opera: 10 minuti che comprendono un canto che è puro alito di ectoplasma, un battito elettronico costante e affaticato, un’aria soul e una sezione centrale impro-jazz a far da collante. Il talento è quello di sempre: prendere elementi distantissimi e farne non solo un brano di senso compiuto, ma anche l’evocazione di un universo altro – dopotutto, l’immagine dell’uomo che cadde sulla terra sarà sempre quella più adatta a descriverlo. E così la morte, qui e negli altri sei pezzi, è solo l’atto finale di una messinscena iniziata con l’arrivo del Duca Bianco sulla Terra: se questa teoria non vi convince, se non vi bastano le note e le parole di cinquant’anni d’Arte pop, ricordatevi di guardare i video della title-track e di Lazarus.
Ognuno di questi lavori meriterebbe un saggio a sé, non le poche righe che gli abbiamo dedicato. Ma c’è un’opera attraversata dal tema della morte, una vera opera-mondo, che resterà il cuore caldo del nostro decennio, quando si tratterà di tirarne le somme. Parliamo di Benji di Sun Kil Moon, il genio irascibile Mark Kozelek.
Dal punto di vista storico, sarà ricordato come l’album in cui Kozelek ha abbandonato definitivamente la poesia: non ci sono rime, qui, le parole entrano a malapena nella metrica – e non è niente rispetto a quello che succederà negli album successivi: sempre più torrenziali, sempre meno sopportabili. Ha finito le metafore, dice lui, ma in realtà non c’è bisogno di metafore per raccontare la morte assurda della cugina Carissa o dell’assassino Richard Ramirez, le stragi di Newtown e Utoya, la paura per chi ancora c’è e dovrà andarsene (I Can’t Live Without My Mother’s Love, appunto): i ricordi vengono a galla uno dopo l’altro, naturalmente e senza un filo logico particolare; a tenerli insieme, la voglia di aggrapparsi all’esistenza nonostante tutto, di darle un senso. Come in Micheline: offensivo inserirla tra le canzoni della vita, perché questa è la vita stessa.
Nel ‘99 ero in tour in Svezia e chiamai casa
per dire a mia madre che avevo avuto una parte in un film
e lei disse “Mark, c’è una cosa che devi sapere:
Brett è morto ieri l’altro, dovresti proprio mandare una lettera ai suoi genitori”
E così salii sul mio treno a Malmo e guardai la neve fuori dal finestrino
sospeso tra felicità e tristezza
In cima a questa pagina c’è un’immagine che vi sarà sembrata singolare. Quel lenzuolo bianco, però, è il protagonista di uno dei film più singolari e toccanti degli ultimi tempi: si chiama A Ghost Story e ve ne abbiamo già parlato qui. Sostanzialmente un film su quello che capita ai ricordi sepolti dal passare del tempo, ma raccontato dal punto di vista del ricordo stesso. Nel mezzo, proprio al centro, c’è un incredibile monologo di Will Oldham:
“E anche noi facciamo il possibile per essere ricordati. Costruiamo la nostra eredità pezzo per pezzo, e magari il mondo intero si ricorderà di noi, o magari un paio di persone, ma di certo fai il possibile per vivere nei ricordi, dopo che te ne sei andato. E quindi continuiamo a leggere quel libro, cantiamo ancora quella canzone, e i figli si ricorderanno dei genitori e dei loro nonni, ognuno ha il suo albero genealogico, Beethoven ha la sua sinfonia, e anche noi la abbiamo.”
Poi il Sole diventa una gigante rossa e tutto finisce. Ma fino ad allora, cosa possiamo fare se non cercare di dare valore a quello che abbiamo? È quello che gli artisti di cui abbiamo parlato hanno provato a fare con gli album che vi abbiamo raccontato. È quello che fece Will Oldham quasi vent’anni fa, quando incise una delle canzoni più belle di sempre – anche se poi lui dice che la morte la si sente di più nella versione di Johnny Cash che nella sua. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.