Lovecraft e l’orrore cosmico al cinema: mostrare ciò che non è mostrabile
La trasposizione cinematografica dei libri è sempre complessa (tanto lo sappiamo tutti che “è meglio il libro”), ma sembra raggiungere la vetta della complessità quando si parla di horror. Troppo spesso il cinema tende a preferire lo spavento facile, riducendo ottime storie a mostri banali. È il caso dei film tratti dai libri di King, con qualche notevole eccezione, primo su tutti IT ed i suoi (non proprio felicissimi) adattamenti.
[Si aggiunga che lo scrittore horror è anche un pessimo critico cinematografico: ogni volta che un film piace a King, è una mezza cacata. E dico mezza perché voglio bene al vecchio Stephen]
Sorte forse ancora più difficile è toccata a Lovecraft e ai suoi scritti. In molti hanno provato a portare al cinema il suo spirito, il terrore fra le righe, il senso opprimente di orrore verso un’Alterità che non possiamo capire, neppure lontanamente, maligna quanto indifferente. La difficoltà verso Lovecraft è evidente: non mostra mai. Tanto più una cosa è terribile, quanto più è indicibile. Il colore venuto dallo spazio è un colore che non esiste sulla terra. Quindi è indescrivibile per definizione coi nostri limitati mezzi, perché ci mancano addirittura i parametri (di spettro luminoso, così come di vocabolario) per poterlo descrivere. L’impossibilità di definire rende l’orrore ancora più profondo e questo Lovecraft lo capiva bene: la parola smonta l’orrore. Se possiamo descriverlo, trovargli un nome, una definizione, usare delle parole o delle frasi per abbracciarlo nella sua interezza, allora lo possediamo e non fa più così paura. L’orrore di Lovecraft è inafferrabile, con le parole, con lo sguardo, con la coscienza.
L’orrore nello scrittore di Providence proviene spesso da un altro mondo e porta con sé l’Altro (senza scendere in categorie psicoanalitiche). Non è solo l’orrore per la Cosa orrenda, il mostro, ma anche per la consapevolezza che esiste un luogo Altro da noi, con regole non concepibili, popolato da creature che nella migliore delle ipotesi mostrano indifferenza. Al di sotto della patina giustapposta della nostra tranquilla realtà, esiste un mondo differente, troppo disturbante per noi. Che si tratti di mostri interiori o di creature venute da fuori, non solo non siamo soli, ma quello che c’è fuori (o dentro) è terrorizzante e tremendo. Cosa resta? La follia, forse.
Come si può mostrare qualcosa di inafferrabile sullo schermo? Come dare dignità cinematografica agli scritti di Lovecraft, se non è possibile mostrare l’inafferrabile Altro davanti al quale non resta che la follia?
Nelle scorse settimane sono successi due fatti piuttosto rilevanti nel panorama lovecraftiano: è morto Stuart Gordon e ho potuto vedere The Color Out of Space, di Richard Stanley e con Nicolas Cage. Mi sembrava dunque giusto rendere onore a quegli artigiani che, in tempi più o meno recenti, hanno portato Lovecraft sullo schermo con ottimi risultati. A coloro che ci hanno mostrato una delle possibili vie verso l’Altro ed i suoi orrori.
Ecco dunque una lista (incompleta, ma in alcuni casi è difficile incasellare: Event Horizon lo consideriamo Orrore Cosmico? Forse sì. Lo consideriamo un buon film? Nì. Resta il film che ha insegnato ad Interstellar a spiegare i buchi neri con carta e penna. E The Lighthouse? Non è considerabile un film sull’Orrore Cosmico?) per allietare le vostre notti e rendere proficui i vostri sonni popolandoli di incubi volanti.
Incominciamo dall’inizio…
Herbert West, re-animator
Cominciamo proprio da Stuart Gordon, “vecchio” dell’horror e uno dei pochi capace di portare Lovecraft sullo schermo. Grande artigiano, capace di sceneggiare Cara, mi si sono ristretti i ragazzi (ok, è una commedia, ma poteva essere un horror meraviglioso: pensateci), di dirigere episodi di E/R e di realizzare horror sull’Orrore Cosmico col suo amico Brian Yuzna.
Ebbe la grande idea di dedicarsi principalmente ai racconti più “fisici” di Lovecraft ed iniziò negli anni Ottanta proprio da Re-animator, tratto dal racconto “Herbert West – re-animator” di Lovecraft, riuscendo a adattarlo ai tempi moderni. Herbert West è interpretato da uno spiritatissimo Jeffrey Combs (che collaborerà con Gordon e Yuzna in molti altri film), perennemente in overacting. La sua interpretazione vale da sola il film ed insieme alla cornice ed ai comprimari (la testa di David Gale! Quella testa!) riesce a rendere accettabile anche il fluido verde fosforescente con cui West rianima i corpi (e i gatti, che Pet Sematary levati proprio). Il risultato è un trionfo di gore che appaga gli occhi e lo spirito. Lovecraft c’è, la sua narrazione è abbastanza seguita, ma rimane trasfigurato in una messa in scena sovrabbondante e che si mantiene sempre sul ciglio dell’eccesso e del ridicolo. Gordon intuisce anche i limiti narrativi di Lovecraft (oltre a quelli legati al periodo storico di cui non perlerò), fra cui il rischio di tramutare l’orrore in farsa, la paura in grottesco. Solo la bravura di Gordon impedisce al film di scivolare in questo baratro, tenendo alta la tensione e non permettendo mai che gli eccessi diventino l’unico motore della narrazione.
Stuart Gordon ci mostra una via, una possibilità. Che lui e Yuzna percorreranno fino ad anni recenti, con From Beyond (forse l’apice più alto della poetica sull’Orrore Cosmico di Gordon), Dagon e un episodio di Master of Horrors, Dreams in the Witch-House.
Carpenter e la trilogia dell’Apocalisse
Ci vorrebbe un intero libro per parlare di questo prodotto incredibile degli anni Ottanta (e non è detto che non ci dedicheremo un articolo a parte). Carpenter negli stessi anni di Gordon interpreta in maniera diametralmente opposta l’Orrore Cosmico di Lovecraft, in un processo di destrutturazione che va dal fisico all’immateriale. Da La Cosa, dove l’orrore è rivelato come orrore della carne, nella rappresentazione forse più vicina ad uno Shoggoth, si prosegue con Il Signore del Male ed infine con Il Seme della Follia, dove l’orrore è tutto nella testa dei protagonisti.
Se l’ultimo film della trilogia è sicuramente quello in cui la matrice lovecraftiana si avverte più chiaramente e rappresenta forse l’apice di questa fase del regista, Il Signore del Male è quello più interessante da un punto di vista narrativo. Si tratta del film più teorico del regista e anche quello più pessimista. La narrazione ruota intorno al ritrovamento di un cilindro contenente un fluido verde (ciao Herbert West, ciao) che contiene il (un) Diavolo, il (un) Anticristo, l’Antimateria, il Male assoluto. E in pratica non succede nient’altro. Chi si avvicina troppo impazzisce. Dei senza tetto vengono “richiamati” (un po’ come Renfield in Dracula, vero personaggio lovecraftiano) e assediano la chiesa dove i protagonisti sono asserragliati in una sorta di remake di Assault on Precint 13 al rallentatore. L’azione nel film è al minimo, il ritmo lentissimo, e si rimane in costante attesa che qualcosa succeda, senza che mai si giunga ad uno scioglimento della tensione.
Solo nel finale si assiste ad una breve e momentanea accelerata, che mostra come il velo della realtà sia sottile e facilmente squarciabile (basta uno specchio), e come al di sotto di esso ci sia l’innominabile. E rimaniamo col sospetto che manchi qualcosa, che non ci sia stato mostrato tutto. Carpenter gioca con lo spettatore, come Lovecraft col lettore: siamo noi che guardiamo a riempire i buchi, laddove il narratore ci dice che non è possibile descrivere l’apparenza delle cose ed il loro orrore.
(PS: la Trilogia va vista tutta quanta, senza se e senza ma, rimane uno dei capolavori degli anni Ottanta/Novanta)
The Void
Dopo questa incursione nei decenni passati, arriviamo a tempi più vicini a noi (benché il tempo si arrotoli su se stesso nel mondo di Lovecraft e ciò che conta sia solo il sogno: il cinema, appunto).
The Void è un film del 2016, diretto da Steven Kostanski e Jeremy Gillespie. Un film minore, forse non uscito neppure nelle sale italiane, ma degno di nota per il legame profondo con lo scrittore di Providence.
Ci sono i cultisti con le maschere strane, i mostri sbucati dal nulla fatti di carne mescolata male, le altre dimensioni, un buon poliziotto, una donna incinta di non si sa bene checcosa, uno scienziato buono ma forse no, un sacco di triangoli. C’è tutta la materia migliore di Lovecraft e quel gusto un po’ retro, che di questi tempi, si sa, non guasta. Inizia come Assault on Precint 13 di Carpenter, prosegue come La Cosa, ha un cattivo che sembra uscito da Event Horizon, e finisce come …E tu vivrai nel terrore! L’Aldilà, di Lucio Fulci. I due registi mescolano sapientemente le lezioni dei maestri citati ed è particolarmente interessante vedere il rimando (chiaro e plateale) a quello che (a giudizio mio) è il film più bello di Fulci, quello più metafisico e stralunato. In Fulci non c’era intento di misurarsi con Lovecraft, ma ugualmente il film era pervaso da un senso di inconoscibilità verso ciò che si nasconde dietro all’apparenza della realtà.
Con The Void, i registi canadesi prendono l’impatto visivo di Fulci e lo calano in un contesto del tutto lovecraftiano, dove l’Orrore Cosmico pervade le pareti dell’ospedale in cui sono asserragliati e le menti dei protagonisti, sempre più sconvolti di fronte all’orrore innominabile.
The Endless
Nel 2017, Justin Benson e Aaron Moorhead scrivono, dirigono e interpretano il secondo capitolo della loro personalissima “saga” iniziata nel 2012 con Resolution. The Endless è un film capace di fare tanto con pochissimo. Due ragazzi le cui vite sembrano alla deriva, ricevono una strana cassetta e decidono di tornare a visitare la comunità nella quale sono cresciuti e dalla quale sono scappati 15 anni prima.
Qualcosa abita quei luoghi, nei boschi, qualcosa a cui la comunità è in qualche maniera devota. Qualcosa che sembra alterare lo spazio e il tempo e le vite di chi ci vive a contatto. I due registi non ci mostrano mai l’orrore, è impossibile da vedere. Lo si può al massimo avvertire, nella terra smossa dal vento, nelle impercettibili alterazioni della realtà. Eppure è sempre lì che guarda i protagonisti, che dialoga con loro, nascosto nelle pieghe dell’apparenza.
Una piccola gemma per gli amanti di Lovecraft, che riesce a creare un’atmosfera ed accennare ad una teogonia giustamente mai dichiarata né sviluppata. Oltre l’apparenza esiste Altro. Ma spera di non trovarlo mai.
Color Out of Space
Giungiamo infine alla seconda ragione per cui ho scritto questa lista: il nuovo film di Richard Stanley, che forse qualcuno ricorda per l’avventura fallimentare de L’Isola del Dottor Moreau con Marlon Brando e Val Kilmer (dicosacazzostiamoparlando?) e che da molti anni non era più in attività.
Ok, ammetto di aver atteso questo film con la scimmia: Stanley torna dopo tanti anni; fa un film tratto da uno dei racconti più belli di Lovecraft; e il protagonista è Nicolas Cage. Cosa potevamo volere di più? Ovviamente nessuno avrebbe scommesso un nichelino sull’avventura e dunque Stanley lavora di sottrazione (Cage no, ma ce lo aspettavamo). Il colore dallo spazio è una sorta di rosa fluo che pervade tutto, rendendo boschi e foreste colorati e psichedelici come una brutta discoteca negli anni Ottanta. Il regista riesce ad usare con criterio anche la flare lens che tanto disturba in alcuni suoi simili, tipo Annihilation (quella procata di). E soprattutto, Stanley riesce a mettere a regime Nicolas Cage, un’impresa che negli ultimi anni è riuscita a pochissimi (cito: Mandy e Il Cattivo Tenente – Ultima chiamata New Orleans), usando la follia e la faccia di Cage a proprio vantaggio e mai fuori posto.
L’omaggio agli anni Ottanta è evidente, ma non funzionalmente furbo come spesso visto negli ultimi anni (qualcuno ha detto Stranger Things?), e si limita ad alcune citazioni più o meno nascoste, fra cui un incipit che non può non ricordare Labyrinth in versione wiccan. C’è spazio per degli alpaca che diventano il mostro de La Cosa di Carpenter e poi c’è la fazza pazzesca di Nicolas Cage che fa cose da fazza di Nicolas Cage. In overacting quando serve, senza diventare l’unico centro catalizzatore del film, anche grazie a degli ottimi comprimari, come Joely Richardson e la giovane Madeleine Arthur, la versione terrorizzante degli occhi enormi di Amanda Seyfried.
Stanley ha annunciato che girerà altri film basati sulle opere di Lovecraft. E sono già in attesa.
Bonus track: The call of Cthulhu
Non potevamo chiudere la lista senza citare la divinità malvagia per antonomasia nel pantheon di Lovecraft. Qualche tentativo di portare sullo schermo il sovrabbondante Grande Antico è stato fatto. Senza dubbio il tentativo più interessante è un film indipendente del 2005, distribuito dalla H. P. Lovecraft Historical Society, e girato come sarebbe stato girato ai tempi del nostro HP. Si tratta di un film muto, in bianco e nero, che segue il racconto più famoso di Lovecraft perfettamente. E ci dimostra che si può filmare l’impossibile, se solo si vuole. Magari tornando indietro, come in questo caso.
Da vedere. Assolutamente.