Lost in Translation di Sofia Coppola
Esistono dei giorni perfetti per guardare Un Film, e dei giorni che vanno bene per guardare ogni tipo di film. Se sei in compagnia, se fai i popcorn o hai la scorta di orsetti Haribo di fianco al divano, se metti in pausa per rispondere al telefono e se non hai silenziato i gruppi di whatsapp, allora non è il giorno giusto per guardare Un Film.
Un Film è quello che dovresti guardare da solo, senza interruzioni, senza rumori in sottofondo, senza orsetti Haribo nel raggio di tre metri, quando sei nel mood giusto per dimenticarti del resto e finire dentro la storia. Un Film parla direttamente a te, e di te. Ti riguarda. Come se il regista ti avesse frugato nella testa.
Lost in Translation è Un Film. È una sensazione, è il ricordo di qualcosa, è avere le farfalle nello stomaco, è Tokyo, è malinconia, dolcezza, solitudine, è un rimpianto, è voglia di viaggiare.
Tutto questo con un budget limitato (4 milioni di dollari) e un totale di 27 giorni di riprese. Chapeau a Sofia Coppola, che ci ricorda come il cinema fatto di storie non abbia bisogno di fronzoli o effetti speciali per colpire nel segno. E non è cosa da poco, considerando che Lost in Translation non è una storia d’amore nel senso classico in cui intendiamo le storie d’amore al cinema. Non ci sono dichiarazioni strappalacrime, baci appassionati, innamorati che si abbracciano sotto la pioggia con una canzone pop melodica in sottofondo. ORRORE!
Si tratta piuttosto della storia dell’incontro tra due sconosciuti, due solitudini che si ritrovano in un paese estraneo, condividono un senso di inadeguatezza e incertezza sul futuro, diventando poco a poco sempre meno sconosciuti l’uno per l’altra.
I due attori protagonisti, Bill Murray e Scarlett Johansson, sono stati scelti direttamente dalla regista, che ha dimostrato di avere buon occhio: la Johansson è più bella del solito, di una bellezza delicata, quasi fragile, mentre Bill Murray (troppo spesso sottovalutato) ci regala qui un’interpretazione davvero ottima, combinando con grande sensibilità malinconia e umorismo. Il suo personaggio è Bob, un attore hollywoodiano di mezza età che si trova in Giappone per girare lo spot di una marca di whisky, mentre Scarlett Johansson è Charlotte, una giovane neolaureata in viaggio con il marito fotografo, a Tokyo per lavoro.
Il titolo italiano “L’amore tradotto” non ha niente a che vedere con l’originale, ma ormai è chiaro a tutti che chi decide le traduzioni o ha una laurea in lingue presa a San Marino, oppure ha a disposizione solo alcune lettere, come a Scarabeo.
Ma allora perché Lost in Translation? Cosa vuole dirci la Coppola? Sarà mica solo perché il film è ambientato a Tokyo, dove le pubblicità led sui grattacieli fanno sembrare Times Square le giostre tamarre di paese, dove i ragazzini al posto di andare sugli autoscontri prendono a pugni l’aria nelle sale giochi e gli adulti la sera si sbronzano, ma cantando Elvis Costello al karaoke? Certo che no.
È chiaro che il contesto giapponese, così diverso dalla cultura occidentale, isola i protagonisti dall’ambiente circostante e li costringe a misurarsi con le proprie scelte e con il proprio futuro, ma il tema centrale del film è quello dell’identità.
Mai provato la sensazione di trovarvi a un certo punto della vostra vita e chiedervi “ma io qua come ci sono finito?” Ecco, il film parte da quella sensazione lì. Chiamatelo, se volete, Disagio. All’inizio della storia sia Charlotte che Bob affondano fino al collo nel Disagio, sono persi nel tentativo di capire se stessi e di tradursi all’esterno. Parliamo di una crisi esistenziale seria, di quelle che vanno addirittura oltre la voglia di ascoltare i Daughter e ti spingono a comprare un libro dal titolo “Esploriamo l’anima: come cercare la vostra vera chiamata”.
Entrambi sono talmente ripiegati su se stessi da non riuscire nemmeno a godersi la bellezza del Giappone. C’è una totale incomunicabilità verso l’esterno, che inizia però ad incrinarsi man mano che cresce il rapporto fra di loro.
Un po’ come nei racconti di Carver, in questo film c’è tanta umanità e ci sono pochi avvenimenti. Nessun colpo di scena, nessun flashback, nessun momento topico in cui i protagonisti si raccontano i propri fallimenti. Eppure quanta sensibilità e delicatezza sono nascoste nei piccoli gesti! Lo sfiorare una caviglia, uno sguardo perso sui grattacieli di Tokyo, fumare in silenzio una sigaretta in due.
Perché, in fondo, di cosa parliamo quando parliamo d’amore, se non di questo?
Sofia Coppola riesce a creare un film delicato e minimalista, dove tutto il superfluo viene eliminato. È un procedimento ellittico che porta il film a essere denso di significato, perché niente (o quasi) viene detto, tutto viene rivelato attraverso gesti, sguardi, sequenze di immagini, silenzi.
Se state pensando “che palle, un film lento dove non succede niente”, state pensando male.
Il film non annoia perché parla di qualcosa che tutti possiamo riconoscere immediatamente, che non è fittizio come nelle commedie romantiche ricoperte di melassa, ma reale. Guardare per credere. E poi la scena finale! Vale la pena di guardarlo anche solo per la scena finale, con i Jesus and Mary Chain che partono all’improvviso, DOPO che l’azione è finita, che meraviglia! Che liberazione! Just like honey.
Se poi dopo averlo visto doveste continuare a pensare “che palle, un film lento dove non succede niente” bè, mi arrendo. Se volete i baci sotto la pioggia guardatevi i film tratti dai romanzi di Nicholas Sparks. E state attenti al diabete.
Titolo originale | Lost in translation
Regia | Sofia Coppola
Anno | 2003
Cast | Bill Murray, Scarlett Johansson, Giovanni Ribisi