L’ossessione per il pianosequenza, da Hitchcock fino a 1917
Il recente film di Sam Mendes, 1917, pluricandidato agli Oscar e già trionfatore ai Golden Globes e ai BAFTA, propone una storia di guerra come un unico, lunghissimo, pianosequenza, senza stacchi di camera né montaggio. Non è il primo che, soprattutto negli anni recenti, si è lanciato in questa ardua prova.
Ma perché proprio il pianosequenza?
Il cinema è da sempre ossessionato con l’idea del pianosequenza e le ragioni sono molte. Innanzitutto, c’è la sfida tecnica, che mette a dura prova l’”artigiano”: il pianosequenza non ammette errori, né di recitazione né di qualunque altro tipo; non si può staccare, rigirare; tutto deve andare nella maniera giusta, oppure bisogna ripartire da capo. In aggiunta c’è poi la sfida ideologica nei confronti del tempo cinematografico che nel pianosequenza finisce per coincidere con il tempo reale, sovrapponendo i piani in un cortocircuito molto interessante dal punto di vista della teoria del cinema. Il tempo esperito dai protagonisti del film è, infatti, il medesimo che scorre per gli spettatori in sala. Questo comporta una maggiore possibilità dello spettatore di immedesimarsi in ciò che vede, con una partecipazione quasi totale all’azione. Almeno in teoria.
A questa sfida cinematografica molti si sono approcciati in passato, ma il grande avanzamento tecnico del digitale ha permesso in anni recenti cosa che prima erano impossibili. Fra i grandi nomi, Hitchcock provò a realizzare un film che sembrasse interamente un pianosequenza con Rope, dramma da camera di grande intensità. Il problema maggiore all’epoca era la durata della pellicola, troppo corta per poter registrare per intero un film. Hitchcock ovvia a questo inconveniente realizzando delle scene in cui poter fare gli stacchi di camera, senza che questi apparissero evidenti. Il risultato, col senno di poi, è piuttosto modesto e fa sorridere per alcuni espedienti, ma rimane uno splendido esempio di ingegno.
Oltre all’aspetto tecnico, in Rope il pianosequenza è funzionale alla storia. Lo spettatore, infatti, deve essere testimone oculare del crimine: una sorta di “guardone” che vive in prima persona tutto ciò che accade, senza poter prenderne parte. Per Hitchcock questo è il senso stesso del cinema e declinerà il tema dell’osservatore che non può agire in varie forme.
Col digitale, invece, le possibilità diventano maggiori, ma tuttavia solo pochi film affrontano questo rischio tecnico nella maniera più drastica. Film fra di loro diversissimi, come Arca Russa di Aleksandr Sokurov e Victoria di Sebastian Schipper sono sicuramente i due esempi più estremi e meglio riusciti. Gli unici due reali pianosequenza.
Ma arriviamo rapidamente ai giorni nostri, con 1917 col quale Sam Mendes sta per fare incetta di premi pure agli Oscar. Il film si presenta come un lungo pianosequenza (quasi due ore) che segue le vicende di due soldati inviati in una missione suicida attraverso trincee, terre desolate e territori nemici. Esattamente come Birdman prima di lui, il film non è un vero pianosequenza ma il collage realizzato ad arte (ringraziando il digitale) di sequenze di massimo 6 minuti, unite fra loro in maniera che non si vedano gli stacchi. Alcuni stacchi, però si vedono eccome (esplosioni dove tutto diventa scuro, lui che sviene, solo per citare i più evidenti) e ricordano gli espedienti di Rope, senza quel gusto malinconico vintage e tenero. Non si tratta dunque di un pianosequenza reale, come invece sono sia Arca Russa che Victoria, ma di un abile artificio tecnico. E questo, purtroppo, è solo il minore dei problemi.
La telecamera segue i protagonisti da una certa distanza, oppure li precede ed in alcune scene gli ruota addirittura intorno. Il movimento di camera oscura in alcuni momenti i movimenti dei protagonisti e l’occhio e la mente sono più portati a seguire le evoluzioni dell’inquadratura che ciò che è inquadrato. In un rivoltamento metacinematico dell’idea di osservazione (ma per favore, ridatemi piuttosto One Cut of Dead! – per chi non l’avesse visto, vero capolavoro di metacinema -), dove l’occhio diventa più importante della scena che inquadra, talvolta quasi senza vederla. La storia presentata non è particolarmente brillante e l’azione non avviene quasi mai in scena, ma sempre al di fuori dell’inquadratura. Questo insieme di elementi allontana lo spettatore della compartecipazione emotiva nei confronti dei protagonisti e della missione, di cui peraltro conosciamo già a priori il risultato.
In Birdman il pianosequenza diventava parte integrante della narrazione, ne dettava il ritmo e nella sua fissità diventava una sorta di montaggio sincopato, scandito dai dialoghi e dalla sceneggiatura. In 1917 né dialoghi né sceneggiatura fanno granché (come detto, volutamente lasciati all’osso), rimane solamente l’inquadratura fissa e distante. La telecamera, inoltre, non è mai usata come una telecamera a mano. A differenza di Victoria, dove il continuo sobbalzare dell’operatore porta ad una completa immedesimazione nell’azione stessa che viene inquadrata, in 1917 si predilige la distanza e la perfezione fotografica dell’immagine. La camera non sobbalza nemmeno durante le esplosioni, perennemente montata su un carrello, su un binario, su un evidente braccio meccanico che rendono ogni inquadratura artificiale ed artificiosa. Lo spettatore è lì, nelle trincee, ma è anche altrove. Come un gabbiano che sorvola le trincee e non prova alcuna empatia per quelle creature così distanti da lui che soffrono in maniere a lui inconcepibili.
L’impressione che se ne trae è di una splendida scenografia su cui agiscono dei burattini mossi ad arte. L’impressione che se ne trae è, in sostanza, di grande artificiosità. Finanche la scena di maggior impatto coreografico ed emotivo (il protagonista che corre fuori dalla trincea durante l’attacco) dà l’idea di una coreografia perfettamente studiata, dove tutto è come deve essere: anche i capitomboli, anche gli errori, sembrano artefatti. L’impressione non è di naturalezza. Quando Kubrick fotografo vendeva le sue fotografie a “Life”, queste avevano l’aspetto di fotografia dal vero, naturali. Mai Kubrick avrebbe scattato fotografie di questo tipo, ma tutto era costruito fin nei minimi dettagli (da bravo ossessivo): l’impressione globale era, tuttavia, di grande naturalezza. Questo aspetto manca a 1917, quasi completamente.
Un discorso non dissimile si può fare sulla sovrapposizione temporale del pianosequenza. Il tempo del film ed il tempo reale vanno in cortocircuito e finiscono per sovrapporsi completamente. Questo è vero per Victoria, meno vero ed importante per Birdman. Arca Russa rappresenta il superamento del modello di sovrapposizione temporale del cinema, perché il pianosequenza dentro l’Hermitage mescola vari piani temporali, rendendo il Museo una vera e propria “Arca” della cultura russa attraverso i secoli. Un unico tempo (ed un unico spazio) che racchiudono tutti i tempi (e gli spazi) della Russia.
In un film di guerra, il tempo può diventare un comprimario di grande interesse. Ne approfondisce il ruolo Dunkirk, sia attraverso il montaggio che attraverso l’espediente del ticchettio continuo (forse le cose migliori del film, insieme agli occhi di Tom Hardy). E vorrebbe dire la sua anche 1917, ma sbaglia (a mio avviso) l’approccio. I tempi non sono mai chiari o definiti (all’inizio un dialogo sostiene che possono fare lo stesso tragitto partendo di notte) e lo svenimento del protagonista altera ulteriormente il piano temporale del film. Ciò che rimane è un “corsa contro il tempo”, senza che questo temibile avversario (il tempo) venga mai delineato. Meglio, forse, affidarsi al montaggio per esplicitare il tempo (urca, quanto sono buono con Nolan oggi! Pioverà).
A conti fatti, dunque, il pianosequenza di 1917 non affonda le sue radici in un aspetto ideologico o teorico (tempo, emotività), ma nemmeno in un aspetto puramente tecnico (essendo un collage). Ciò che rimane è una bellissima fotografia, dei bei movimenti di camera e poco altro.
Bello da vedere, ma tra una settimana me ne sarò dimenticato completamente.