Lo straniero “invasore” | Enea e il tempo gentile di Milena Agus
« Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis
cum procul obscuros collis humilemque videmus
Italiam. “Italiam” primus conclamat Achates,
“Italiam” laeto socii clamore salutant. »
(Aen., III, 521-524)
Già rosseggiava l’Aurora dopo aver messo in fuga le stelle,
quando vediamo da lontano i colli scuri e la costa bassa
dell’Italia. “Italia”, grida per primo Acate,
“Italia” salutano tutti i compagni con liete grida.
*
Mi sono domandata spesso — e lo so che è una domanda da poco con tutte quelle che si potrebbero fare — quale sia la prima ma proprio la prima impressione che dell’Italia abbia un ragazzo appena sbarcato, finalmente in salvo, dopo la traversata del Mediterraneo.
Che impressione abbia — se ha ancora forze per avere impressioni — delle prime case basse del porto, dei primi volti che gli vengono incontro, delle insegne, delle scritte delle strade e della loro lingua rotonda, della dura pietra su cui finalmente cammina, dell’odore dell’aria nuova.
E quale sarà l’impressione che avrà poi di questa nuova terra nel tempo che seguirà la immediata salvezza? Sarà felice di essere qui? Sarà come l’aveva immaginato?
Poiché ne sono il frutto scontato, mi chiedo come sia la mia Italia vista da fuori e agognata, quando è una meta straniera e una speranza, forse l’unica rimasta, per cui si prega in una lingua diversa da quella che si fa oggetto della preghiera stessa.
*
Canto le armi e l’uomo che per primo, profugo dalla terra
di Troia per volere del fato, giunse in Italia, alle spiagge
di Lavinio, molto sbattuto in terra e in mare
dalla violenza divina...
(Aen., I, 1-4)
Nel I secolo a.C, durante l’impero di Ottaviano Augusto, fu un poeta mantovano a raccontarci la storia di uno scampolo di profughi in viaggio verso l’Italia e a farci sentire, per mezzo della poesia, nei loro panni.
L’Eneide di Virgilio è, come sappiamo, il racconto del viaggio di Enea in fuga da Troia ormai distrutta: tutto ciò che gli è rimasto sono il vecchio padre Anchise che porta con sé sulle spalle, il figlioletto Ascanio, le statuine d’argilla dei Penati e qualche compagno stremato, come lui sopravvissuto alla guerra.
Negli esametri di Virgilio si susseguono il viaggio, i sogni, la disperazione, l’approdo di questo gruppo di profughi troiani il cui destino sarà nientemeno che quello di dare inizio alla storia di Roma, le cui origini hanno dunque sangue straniero.
Enea — l’uomo della pietas, del “senso del dovere”, solo il primo di una lunga lista di stranieri che costellano la storia della romanitas — non è una biglia caduta per terra e di cui si attende di scoprire col fiato sospeso l’angolo di mondo in cui andrà a finire.
Il viaggio di Enea ha uno scopo e una destinazione prestabiliti e voluti dal Fato e che Virgilio, in futuro anteriore, ci svela fin dal principio (e di cui i lettori hanno già le “prove” tangibili): raggiungerà l’Italia e lì ricostruirà una nuova patria, che sarà la più gloriosa della storia umana.
Poco più di duemila anni dopo la morte di Virgilio, una piccola casa editrice milanese fondata da Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi dà alle stampe un romanzo breve che racconta la storia di un altro gruppo di profughi sbarcati in Italia: un grappolo di uomini e donne salvati dall’acqua e poi “spediti” insieme ad una manciata di volontari in un piccolo paesino dell’entroterra sardo, nel Campidanese.
Un tempo gentile di Milena Agus (nottetempo, 2020) è un campo di battaglia: paesani contro invasori.
«Non era questo il posto» ripetono di continuo entrambe le fazioni: i paesani, gli autoctoni, non li vogliono gli stranieri e infatti li chiamano da subito “invasori”; gli stranieri, dal canto loro, non si capacitano di essere finiti in questo corno di forca di paesino sardo e sperano che presto si apra per loro la strada della vera Europa, per raggiungere la quale hanno rischiato la vita.
Il “posto” della discordia è «un paese di bicocche e strade che si stavano sgretolando, di vecchie case rimodernate con blocchi di cemento e alluminio anodizzato». Un paese perduto e senza più vocazione («Una sorta di maledizione ci impediva di immaginare il futuro») dove non ci sono più giovani né bambini e da dove chi ha potuto se n’è andato — è emigrato, perché le fazioni in battaglia sono in realtà tre: paesani, immigrati ed emigrati — per trovare successo o soltanto un nuovo indirizzo.
Un paese di orti e giardini dimessi e abbandonati, che un tempo produceva miele olio e vino e ora sopravvive con i carciofi e le biomasse.
La vicinanza con gli invasori a poco a poco spacca il paese in due e ridisegna i contorni delle fazioni: un coro di paesane, sarde campidanesi dalla natura lieta e chiacchierina, comincia ad interessarsi ai nuovi venuti, ad aiutarli nei piccoli problemi quotidiani e a conoscerli da vicino, e per questo raccoglie l’ostilità di mariti, suocere, amiche e compaesani dai musi lunghi.
Giorno dopo giorno lo strano minestrone di volti, lingue e culture produce nuove forme di vita che ripopolano la desolazione: la natura torna a crescere, nasce un bimbo, ci si apre al mondo, e poiché la possibilità del bene viene sbattuta in faccia non ci si tira indietro. Si scopre un motivo per esistere, per non crepare.
« Eravamo gente antigori ‘e nannai, dell’antichità di nonna, che amava il caffellatte la mattina con la fetta di civraxiu abbrustolita e di sera la minestra, possibilmente di gintilla, lenticchie. I piatti tipici sardi erano comunque facili da realizzare, quelli esotici quasi impossibili, per la mancanza delle spezie, finché Said Amal, con la cucina a gas che gli avevamo regalato e che aveva finalmente sostituito ai fornellini da campeggio, fece il miracolo. Le patate, le cipolle, l’aglio, il riso e le mele, diventati impasto per degli insoliti felafel, inondarono di profumo la desolazione e l’abbandono di quel vecchio ambiente. »
Tutto nella storia di Milena Agus è gentile: la sua scrittura tonda e attenta; la voce narrante curiosa, ingenua, lieta e chiacchierina; questa parentesi di tempo, un tempo di tregua e di vita che ritorna con la commozione di una fogliolina nuova; i personaggi, una miscellanea di umanità varia, rotta e dolcissima. Uscire dalla propria tana e dare aiuto, anche questo è gentile.
«Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt»
(Aen., I, 462)
Sono lacrime delle cose e le vicende mortali commuovono gli animi
Coerentemente allo statuto della sua casa editrice, Un tempo gentile ha qualità letterarie e filosofiche e sopra tutte sta la leggerezza.
Non è un reportage di Alessandro Leogrande e nemmeno il dettagliato resoconto di un’utopia concreta quale quella realizzata da Mimmo Lucano a Riace: è piuttosto una favola per bambini da leggere alla sera, una parabola gentile e fa bene per questo. Non significa che si tratti di una storia superficiale, fantasiosa, edulcorata: Agus ha considerato ogni cosa e ad ogni cosa ha dato un nome, ma la sua scrittura ha il dono della pura luce.
*
Come giustamente osserva Andrea Marcolongo nel bellissimo saggio intitolato La lezione di Enea (Laterza, 2020), degli studi scolastici dedicati all’Eneide ci restano impressi il racconto di Didone e qualche frammento di qualche episodio del viaggio (metti l’incontro con le Arpie…), mentre ben poco ricordiamo di ciò che succede quando i troiani sbarcano sulle coste del Lazio.
Che cos’è questa “Italia” che esplode nel grido di Acate alla prima luce dell’aurora?
Humilis Italia: una terra fertile, di boschi e laghi, abitata per lo più da contadini e pastori saldi come la pietra e il ferro, instancabili e parsimoniosi, che si accontentano di poco e non si arrendono mai. Un popolo di uomini nati da tronchi di dura quercia (Aen., VIII, 315) ma anche selvatici e di rozzi e primitivi costumi.
Insomma, fino allo sbarco di Enea «quelli buoni, istruiti, educati e raffinati non siamo noi. Noi siamo gli altri» scrive Marcolongo.
Con i profughi troiani sbarca, dunque, in Italia tutto il patrimonio di cultura e di sapere del mondo greco.
E sarà il patto multietnico, la contaminazione umana e culturale tra mondo greco e italico, a costituire il terreno per la futura fondazione di Roma e per ciò che nei secoli a venire sarebbe diventato il “carattere mediterraneo” a cui noi stessi apparteniamo: «Gente nuova si mescola con gente antica. Così è sempre accaduto nella storia degli uomini: due genti divengono una, e in quell’uno stanno il due e il molteplice, che in origine erano divisi» scrive Guidorizzi in Enea, lo straniero (Einaudi, 2020).
Cercando di non cadere nelle trappole della retorica — mi pare che, nei secoli, l’Eneide sia stata fin troppo strattonata e tradita — di Enea possiamo dire questo: di questo eroe malinconico così diverso dagli eroi di Omero, che non sa che farsene della gloria e pensa a salvare la sua famiglia; che non ha spavalderia né ferocia; che soffre in ogni suo gesto ma non cede mai al ricatto dell’angoscia; che è sprovvisto di pie’ veloce o di multiforme ingegno eppure, in tutta la sua dignità, non si sottrae al dovere, perché è nella pietas che consiste il suo valore; di questo advena giunto in Italia da profugo, possiamo dire che sia alle origini di tutto, della nostra identità e della nostra patria.
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ll nostro pater identitario è uno straniero — per giunta lontano dai canoni di forza e furbizia degli eroi omerici: canoni incarnati nell’Eneide da Turno e dai suoi Rutuli, cioè da coloro che verranno sconfitti.
La nostra identità — termine di cui molti, ieri come oggi, si riempiono la bocca in atteggiamento difensivo verso tutto ciò che è diverso — è il frutto di quell’originario melting pot (e di tutti quelli a venire) fra culture differenti, fra stranieri e aborigeni: nessuna presunta “purezza” può essere sbandierata senza ignoranza e se si volesse proteggere coerentemente la nostra storia, le nostre radici, si dovrebbe allora favorire ogni tipo di apertura al mondo.
E, infine, alle origini e al vertice della nostra letteratura (de li altri poeti onore e lume, Dante, Inf., I, 82) ci sono i versi di un poeta “italiano” che scrisse non di come l’Italia si preparò all’impatto di Enea ma, con un ribaltamento di prospettiva, di ciò che Enea provò lasciando la sua città, di ciò che provò durante il suo lungo viaggio, di ciò che provò e vide una volta giunto a destinazione. La nostra più grande letteratura, proprio come i buoni libri dei nostri giorni, possono insegnarci anche questo: a stare nelle scarpe degli altri.
[tutte le traduzioni dei versi dell’Eneide citati nell’articolo sono tratte da La lezione di Enea, Andrea Marcolongo, Laterza, 2020]
Gentile Stefania, sono Milena Agus e ti ringrazio di cuore per quello che hai scritto su Un tempo gentile. Sono molto molto emozionata. Del libro ho scritto 14 versioni prima di arrivare a quella definitiva e in una di queste Zietta faceva i compiti con il nipote proprio su Enea e il suo sbarco a Cartagine! Un caro saluto e ancora grazie, Milena Agus
Gentilissima Milena, sono io a doverla ringraziare a nome di tutto il gruppo di SALT.
Per aver letto il nostro articolo e soprattutto per aver scritto “Un tempo gentile”: da anni aspettavo che qualcuno scrivesse un libro come il suo, in cui tutto – un mondo più “gentile”, spontaneo e curioso – sembrasse a portata di mano, evidente e puro. Non ha tralasciato niente e, nonostante tutta la tragedia che fa da sfondo, riesce a fare del bene.
(E la ringrazio anche per Lina, è un personaggio indimenticabile).
Quando in libreria l’ho visto accanto ai due saggi su Enea ho pensato che i tre libri (quattro, insieme a Virgilio) potessero godere della reciproca buona compagnia.
Torni presto alla sua bellissima scrittura, la aspettiamo!
Stefania