Lo Squalo: cinema “di genere” a chi?

Lo Squalo: cinema “di genere” a chi?

Regia: Steven Spielberg | Anno: 1975 | Durata: 124 minuti

Se c’è una cosa che non sopporto sono i digeneristi. Li conoscete pure voi, statene certi. Sono quelli che quando si parla di film (o di musica, o di qualunque altra cosa) alla fatidica domanda “ti è piaciuto?” rispondono “è un buon film [pausa di una paio di secondi] di genere”. FIGLI DI SATANA!

Rispondono creando un sotto-gruppo senza darmi i mezzi per capire dove si collocano loro. Come si pone un sotto-gruppo rispetto a tutti gli altri che sono stati inavvertitamente creati con questa classificazione? Cosa: un buon horror è meglio o peggio di una terribile commedia?

Se proprio vogliamo parlare in termini relativi e non assoluti allora mi si dica non rispetto a cosa lo si preferisce ma a cosa lo si ritiene inferiore. Perché se io dico che considero il film x il migliore di tutti i tempi, e qualcuno mi dice che sì, in effetti è meglio di molti altri mi sta implicitamente anche dicendo che però lo reputa peggio di altro. E allora  mi avrà dato il contentino ma avrà al contempo fuggito qualsiasi confronto. Vigliacco! Sfidami in campo aperto dicendomi cosa tu osi considerare migliore rispetto ad x!

Con questo cosa volevo dirvi? Ah, sì: che il film di cui parleremo oggi qualcuno ha avuto il coraggio di considerarlo un ottimo film….di genere. Ma quale?

L’unico genere riconosciuto è quello tassonomico: Carcharodon, in questo caso

Mai come negli anni ’70, grandi investimenti non escludevano assoluta approssimazione. Nel 1973, al grido di “prima si fa, poi si pensa” i produttori Brown & Zanuck acquistarono i diritti di un romanzo di un certo successo, di tale Peter Benchley, senza minimamente preoccuparsi di chi coinvolgere, né tantomeno della reale fattibilità del progetto. Questo romanzo parlava di uno squalo assassino, ed era una totale novità.

Fu quasi con altrettanta leggerezza che un regista neanche lontanamente emergente venne tirato dentro. Steven Spielberg aveva 28 anni all’epoca e, a parte qualche cortometraggio e pochi lavori televisivi, un solo film sulle spalle: Duel, un film indie su un’autocisterna assassina (Sugarland Express, seppur terminato, doveva ancora essere distribuito). È necessario partire da Duel perché, leggenda vuole, quando Steven si trovò tra le mani la bozza di sceneggiatura de Lo Squalo, la prima cosa che pensò fu “è come Duel, solo che l’autocisterna va sott’acqua”.

Con una sceneggiatura incompleta e nessun attore scritturato, l’intera produzione era ancora in alto mare e rischiò di affondare definitivamente quando, nella primavera del ’74, uno sciopero del sindacato attori previsto per l’estate fece minacciare gli Studios che qualsiasi produzione non in grado di terminare le riprese entro giugno sarebbe stata sospesa a tempo indefinito. Spielberg ebbe quindi l’intuizione di passare la bozza di sceneggiatura al suo bff Carl Gottlieb che, da bravo autore televisivo, era abituato ad avere tempi strettissimi e snellì la sceneggiatura, aggiunse un po’ di umorismo e, in pratica, diede un’anima ad un altrimenti sterile copia carbone del libro. C’era una storia, bisognava ora trovargli dei volti.

Volti

Una delle poche idee chiare fin da subito era che la star del film sarebbe stata lo squalo. Questo voleva dire che i nomi che circolarono all’inizio della produzione – Charlton Heston, Paul Newman, Robert Redford – furono presto esclusi per non offuscare il vero protagonista e si scelse di optare per attori meno noti. Dopo una serie di offerte declinate, Richard Drayfuss venne scelto dallo stesso Spielberg per interpetare Hooper, un giovane ricercatore oceanografico, mentre Robert Shaw – uno di quegli attori britannici di cui periodicamente l’America s’innamora (era il miglior nemico di Sean Connery, con cui per anni si contese lo scettro) – fu richiesto dei produttori e se Lo Squalo è il film che è, è in buona misura grazie al suo Quint.

Per il ruolo di Brody invece, capo della polizia di Amity, la situazione era più complicata. A lui spettava il ruolo del personaggio umile con cui il pubblico potesse identificarsi, e questo fu un problema perché mai come negli anni ’70 la polizia era incazzata. Quello che oggi fa scendere le persone in strada a protestare, all’epoca le portava a cinema (erano gli anni dell’ispettore Callaghan, per dire); uno sceriffo così volutamente retrò era difficile da immaginare. Fu per caso che Spielberg si ritrovò quasi a piangere sulla spalla di un basito Roy Scheider – a sua volta conosciuto per Il braccio violento della legge – di come non riuscisse a trovare nessuno per il ruolo. Pochi giorni dopo, Scheider firmò il contratto.

Il frame più terrificante di tutto il film

Il making of de Lo Squalo è una di quelle vicende cinematografiche assurta a leggenda; su cui sono state scritte pagine e pagine di racconti, biografie, aneddoti, trasformate in altrettante bobine di documentari, approfondimenti, interviste (la mia storia preferita è quella del nano che non sapeva nuotare usato nelle riprese di uno squalo vero per farlo sembrare più grosso).

In questo senso, l’oramai arcinota storia del perenne malfunzionamento dello squalo robotico fu anche la ragione di una delle scelte più azzeccate del film: far vedere lo squalo il meno possibile. Su due ore di film, lo squalo viene inquadrato in tutto poco più di un minuto, eppure è una presenza quasi costante per almeno metà della pellicola.

Se è porno tolgo                                                photo credit: Euan Rannachan (https://beashark.photos/)

Ne parlai già qua, ma la vera chiave di volta del successo di questi film è il terrore subdolo e inquietante provocato dal fatto che la minaccia, per la maggior parte del tempo, non si vede. Sappiamo che c’è, ma non sappiamo dove sia né cosa stia facendo, non abbiamo il controllo e scopriamo quella limitatezza che, in quanto esseri umani, abbiamo così arduamente cercato di rimuovere. Camminare in una foresta o nuotare dove non si vede il fondale fa emergere una parte di noi che credevamo addormentata per sempre.

Ma, oltre a questo, Lo Squalo resta un film in grado di suscitare angoscia in tutti, convogliando una lunga serie di fobie e tabù sociali, dalla paura evolutiva dell’acqua alta a quella reazionaria per l’invasore, fino a quel senso di disagio puritano che contraddistingue parecchi horror (la forma dello squalo – un fallo gigante con un’immane vagina dentata all’estremità – è la summa di quella sessuofobia che sarà ripresa in quasi tutti gli slasher, da Alien in poi). Per non parlare del contributo dato dalla colonna sonora di John Williams nel provocare un constante senso di ansia e pericolo imminente.

Lancia in resta e via a sconfiggere i mostri

Eppure, vivere Lo Squalo come semplice natural-horror (di cui comunque, insieme a Gli uccelli, rappresenta il più fulgido esempio) è solo il primo di vari livelli interpretativi.




C’è infatti un momento in cui Lo Squalo cessa di essere avventura di frontiera e diventa epica universale: il monologo dell’Indianapolis. Howard Sackler, uno dei primi a rimaneggiare la sceneggiatura del film, aveva intuito la necessità di un “trattamento Moby Dick” che rendesse lo squalo qualcosa di più di un terrificante ma semplice pesce e decise di aggiungere al personaggio di Shaw un background che trasformasse la sua caccia in qualcos’altro. Serviva qualcuno che trasformasse l’idea geniale in parole geniali e all’epoca, ad Hollywood, quell’uomo c’era: John Milius. E Spielberg lo conosceva.

John Milius è uno dei migliori dialoghisti e sceneggiatori di sempre. Purtroppo è anche l’uomo che ha ispirato il personaggio di Walter Sobchak – non proprio una persona facile da gestire, insomma – ed è sempre stato trattato come il cavallo pazzo della scuderia della New Hollywood fino a diventare oggi forse l’autore meno conosciuto in rapporto alla sua produzione. Ma Spielberg – che, mi accorgo ora di non averlo detto, all’epoca era veramente un genio – decise di mandargli quella scena per “fargliela aggiustare”. Milius trasformò le due linee di Sackler in un monologo di 15 minuti (ridotto poi a 4 dallo stesso Shaw): un monologo che ha fatto la storia del cinema e che insegna a tutti, anche chi il mare non l’ha mai visto, ad avere paura degli squali.

Sono 4 minuti di arte cinematografica, scritti da Dio e recitati dal Diavolo, in grado di trasformare una battuta di pesca in uno scontro tra forze cosmiche che riguarda tutti noi. Empatizziamo talmente tanto con Quint che il suo trauma diventa il nostro: noi proviamo quello che ha provato lui, proprio come in Moby Dick condividevamo il senso della missione di Achab e la balena smetteva di essere UNA balena per diventare incarnazione stessa del male (o del bene, dipende da come vi ponete rispetto al capitano dalla gamba d’osso). Tutti siamo sull’Orca proprio come tutti eravamo sul Pequod.

Quei denti aguzzi, quel loro agire di sorpresa, quegli occhi senza vita, sono caratteristiche che vanno oltre la semplice biologia e fanno venire i brividi anche a chi agli squali vuole particolarmente bene e gli ha dedicato una tesi.

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Ecco, Lo Squalo è tutto questo. Un film in grado di essere un’avventura epica, un poliziesco, uno slasher, un natural-horror, un western (perché un western? Una comunità isolata, un fuorilegge venuto da fuori a minacciarne la tranquillità, tre uomini che partono all’inseguimento, notti di racconti, un duello finale. Ditemi voi se questa non è la trama del più classico dei western). Il miglior adattamento di Moby Dick.

Quindi se per cinema di genere intendete quel genere omnicomprensivo in grado di raccogliere elementi di tutti i generi, in cui posizionare quel centinaio di film che anche se fatti vedere a un alieno del pianeta Xyzyx gli provocano caduta della mascella, palpitazioni e una generale sovreccitazione allora siamo d’accordo. Sennò tacete.

 

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