Lo spettacolo del genere | Intervista a Adele Tulli su “Normal”
La vita scorre, i gesti si ripetono, continuamente, prendendo una forma precisa che diventa invisibile quando subentra l’abitudine, e in un attimo ci ritroviamo intrappolati in schemi comportamentali, emotivi, relazionali che non abbiamo scelto.
Una madre fa fare i buchi alle orecchie a sua figlia, dei ragazzi parlano di come conquistare una donna, una coppia di sposi si fa fotografare davanti al mare al tramonto.
Presentato alla Berlinale 69, nella sezione Panorama, il nuovo film di Adele Tulli Normal non cerca di essere sensazionale, non grida indignazione, ma ascolta pazientemente e interroga ciò che vede.
Scene quotidiane, “normali”, costruiscono a mano a mano il puzzle di una società complessa, in cui abitudini, usanze, rituali si sovrappongono come strati di polvere ispessiti, ostinati insieme ai pregiudizi che li accompagnano.
Lo sguardo di Adele Tulli, a volte pietoso, altre alienato e lontano, ci invita a riconsiderare ciò che ci circonda, interrogando la realtà in cui siamo immersi e cambiando in maniera radicale l’angolazione da cui guardiamo le cose. Il punto di partenza per il suo discorso sulle dinamiche di genere e la sessualità non è l’estraneo ai margini di una comunità omogenea, bensì il normale in tutta la sua scontata, banale ordinarietà.
Componendo un variopinto, a tratti grottesco mosaico, le immagini di Normal si caricano di ulteriori significati rispetto a quello abituale, superando la prima superficie di senso grazie all’uso sapiente delle inquadrature rigide, della musica fantascientifica, delle composizioni innaturali ai limiti della distorsione.
Alternando determinazione e dolcezza, sempre in bilico tra la spietatezza e l’acume del suo occhio critico e la profonda empatia verso l’affollato universo che rappresenta, Adele Tulli regala un’opera singolare, che fa ben sperare nel superamento dei confini, che siano semantici, di genere, ma soprattutto cinematografici.
Come nasce, ma soprattutto come prende forma questo progetto?
E’ stato un percorso lungo, nato dal dottorato teorico-pratico che stavo facendo a Londra, per il quale era prevista la realizzazione di un film. Lo spunto iniziale della ricerca era di utilizzare il mezzo audiovisivo, nel particolare il documentario, per articolare una riflessione critica sulle dinamiche di genere. L’idea era quella di non riprodurre in maniera acritica la realtà, bensì esercitare un intervento, sperimentando sul linguaggio e cercando la forma adatta ad affrontare questo tema. Ho cominciato alla lontana, con in mente Comizi d’amore (1963) di Pasolini che è un po’ una Bibbia in questo campo, insieme a Comizi d’amore ’80 di Cecilia Mangini. Era interessante che ci fosse una sorta di storia lineare di queste indagini che percorrevano l’Italia da nord a sud interrogandosi su sessualità, genere, stereotipi.
A partire da questi presupposti, ho iniziato una mia versione dell’indagine viaggiando attraverso la piattaforma di BlablaCar, che mi dava la possibilità di passare del tempo con completi sconosciuti. Due cose sono uscite fuori. Prima di tutto, l’elemento che più mi interessava esplorare era il livello di complessità e contraddizione interiore di cui ognuno di noi è portatore quando si confronta con le norme sociali. Infatti, da un lato durante queste conversazioni usciva fuori come le norme sociali inevitabilmente agiscono sulle nostre vite. Dall’altro, emergevano momenti personali di esitazione, di frustrazione o di sovversione di queste regole, rendendo chiaro che il modo in cui ognuno negozia la propria identità con i modelli dominanti è fonte di complessità interiore, contraddizioni, fatica. L’altra cosa che ho capito è che non volevo fare un film fatto di parole e di racconti. Volevo che l’intimità dei protagonisti non fosse centrale, mostrando piuttosto l’esperienza collettiva e le coreografie quotidiane messe in atto costantemente nelle nostre interazioni, nei gesti, nei comportamenti. Da qui l’approccio a mosaico, in cui nessuno fosse protagonista.
Il tuo è un tentativo riuscito di riportare la questione a una neutralità senza entrare a fondo della storia di nessuno, cogliendone le diverse sfaccettature. Nel tuo film non viene indicato il contesto socio-economico, che per Pasolini era fondamentale nei suoi Comizi d’amore. Al contrario, la società da te ritratta appare poco stratificata. Quale influenza ha secondo te l’appartenenza sociale, quanto l’economia (per non dire il capitalismo) contribuisce a plasmare i nostri comportamenti di genere e sessuali?
L’intenzione del film è quella di mettere in relazione situazioni differenti tra loro. Scene che avvengono a nord e a sud, in contesti urbani o provinciali, in classi sociali diverse sono messe una vicino all’altra. Nonostante le differenze che notiamo, quello che volevo mostrare è che nessuno vive sottovuoto, completamente al di fuori di un sistema di regole o esterno a riferimenti di norme sociali. Penso che in un modo o nell’altro riguardi tutti. Ovviamente ogni persona ha il suo modo di farci i conti, di confrontarsi e di essere più o meno cosciente di tali condizionamenti. L’obiettivo è quello di suscitare una messa in discussione: se almeno uno dei quadri del mosaico ti toccano, sarai portato a interrogarti sulle dinamiche interiori che agiscono su tutti noi. Ad esempio, la scena della signora che fa il galateo di matrimonio in Puglia, che sembra quasi uscita dagli anni ’50, è messa volutamente a confronto subito dopo con la scena dell’addio al nubilato, che non appartiene per nulla a un immaginario retrò, trattandosi anzi di un’usanza molto contemporanea che viene da immaginari americani alla “Sex and the City”. Le due scene, messe vicine, rappresentano due facce della stessa medaglia, anche se da un lato hai la donna angelo del focolare e dall’altro quella moderna, che esce, si diverte ed è in controllo della sua sessualità. In entrambi i casi si racconta uno stereotipo che corrisponde a un ruolo sociale ben definito.
Come hai selezionato i tuoi protagonisti, e come hai spiegato a chi è in scena il tuo progetto?
Ogni scena ha una storia produttiva molto diversa. Una volta individuato il tema centrale del film e la struttura a puzzle caleidoscopico di situazioni differenti, l’unico vero arco narrativo era quello della crescita, dall’infanzia attraverso l’adolescenza e l’età adulta. Mi interessava cogliere tanto la messa in scena dei generi, maschile e femminile, quanto l’incontro tra i generi e cosa può innescare. Volevo cogliere i riti di passaggio, momenti significativi a livello simbolico che raccontassero cosa si mette in gioco nell’abitare un genere. Cominciavo a immaginarmi delle situazioni, alcune sono state cercate, in altre mi sono imbattuta per caso mentre stavo girando. Nelle scene più individuali, abbiamo parlato con i singoli soggetti spiegando il progetto, di come metteva a confronto scene senza voci fuori campo, tentando di raccontare la performance del genere maschile e femminile attraverso la crescita dell’individuo. Invece, nelle situazioni di massa ci siamo interfacciati con i gestori degli stabilimenti e delle diverse location.
Mi immagino che nella maggior parte di queste situazioni non disturbasse affatto la telecamera, anzi, sembra che venga cercata in alcuni casi.
Al Blanco (Fregene) ce ne erano altre sedici di telecamere, per la pagina facebook o altre piattaforme. Molti di questi contesti erano pubblici: lo stabilimento balneare, il motoraduno. Oggi viviamo in un mondo diverso rispetto a quello considerato dagli studi di cinema anche solo dieci anni fa. Siamo costantemente immersi nella rappresentazione di noi stessi tramite i social, gli smartphone, la nostra interazione con telecamere e device vari non ha alcun precedente nella storia. Nel film quello che mi interessa non è di ritrarre l’intimità di chi osservo, bensì la rappresentazione di sé, la performance sociale, la messa in scena pubblica di un ruolo. L’aspetto artificiale, contrito, performato che si ha davanti alla telecamera era proprio quello che cercavo. Non ho voluto quindi togliere la maschera di un personaggio, ma al contrario rappresentarla. Il tipo di lavoro che fa il film è quello di mostrare la componente artefatta e codificata delle interazioni sociali. Il documentario viene in questo caso utilizzato come mezzo per mettere a fuoco quella artificialità. La mia intenzione è contraria a quella del cinema verità, che minimizza la componente artificiosa del mezzo cinema attraverso scelte naturalistiche, musica diegetica, etc. Quello che ho inteso fare con Normal è il lavoro opposto, di esasperazione di tutti i dispositivi cinematografici: le inquadrature molto composte al limite della naturalezza, le simmetrie impossibili, il montaggio antinarrativo, l’uso non diegetico della musica e del suono. Il tutto nel tentativo esplicito di esaltare l’artificiosità del quotidiano.
Il risultato è uno sguardo alieno e stralunato sugli aspetti grotteschi del vivere umano. Il primo autore a cui ho pensato vedendo Normal è Ulrich Seidl, più che altro per lo stile di regia, non tanto per la freddezza, il tuo film è sicuramente più “caldo”. Seidl non è di certo il documentarista più noto in Italia. Non solo il tema, quindi, ma anche la forma del tuo documentario sono pressoché inediti al pubblico italiano. Ti ha spaventato questa barriera culturale?
E’ stato un percorso interessante in questo senso, perché da un lato avevo la protezione del contesto di ricerca del dottorato che mi permetteva di concentrarmi sulla sperimentazione delle forme che mi interessavano senza dovermi preoccupare del prodotto finale. Ho iniziato quando ancora non esisteva una realtà produttiva, non c’erano finanziamenti e di conseguenza avevo grande libertà dalle influenze esterne. Quando i quattro produttori di FilmAffair hanno cominciato a seguirmi, abbiamo iniziato a chiederci se questa forma fosse sufficiente per costruire un lungometraggio, soprattutto per l’assenza di una narrativa lineare. Abbiamo anche considerato a un certo punto di includere alcune delle interviste di BlablaCar come spina dorsale, sostegno narrato del film. Però più andavo avanti, più capivo che stavo cercando un’altra cosa. Sicuramente c’è Seidl tra le mie ispirazioni, insieme a Nikolaus Geyrhalter, Erik Gandini, altri documentaristi che effettivamente sono poco conosciuti in Italia. Insomma, io sono andata un po’ per la mia strada, gli approcci classici di finanziamento non hanno funzionato inizialmente. Il primo tassello è stato una art grant, un finanziamento in cui noi presentavamo il progetto come un’istallazione audiovisiva. Già questo ti dà la misura di quanto fossimo fuori dallo schema produttivo tradizionale. Una volta ottenuto quel finanziamento, abbiamo realizzato una prima mezzora fondamentale del film, sia per capire come avrebbe funzionato sia per presentarlo, perché nella versione scritta questo progetto nessuno riusciva a capirlo. Da lì siamo riusciti a farlo passare dove non sembrava potesse rientrare, nelle istituzioni tradizionali legate, appunto, al documentario convenzionale.
La musica è il contro-altare dello stile di ripresa, ribalta completamente il senso della realtà per come la guardiamo e apre le porte a uno sguardo contemplativo sui comportamenti umani. Laddove non ci sono parole, spiegazioni, ti ha spaventato l’idea di creare un distacco da quello che osservavi?
Il film tenta di stare su una linea molto sottile, a metà tra empatia e distanza, tra calore, identificazione e vicinanza e una prospettiva invece straniante, che tenta di confondere, di spiazzare e di conseguenza di interrogare quello che ci circonda e che essendo normalizzato diventa trasparente, invisibile. Tutto ciò è ottenuto attraverso i dispositivi cinematografici più artificiosi (le simmetrie, i movimenti all’unisono, le prospettive dall’alto), alternati a momenti più naturali, spontanei. Allo stesso modo, il suono alterna momenti diegetici e di non intervento ad altri in cui le distorsioni (ad esempio nella fabbrica di giocattoli) e la musica creano l’effetto di straniamento. La musica funziona per astrarre dall’immagine e aggiungere significati e letture. Dall’inizio mi ero immaginata di non volere la classica colonna sonora, per questo ho coinvolto Andrea Koch, un compositore di musica sperimentale che ha saputo creare delle atmosfere che sfiorano lo sci-fi, interpretando il mio desiderio di creare un’esperienza immersiva quasi ipnotica, piena di connessioni simboliche con una certa libertà per lo spettatore, lontano da un approccio didascalico.
La tua resta una riflessione molto politica, in un mondo in cui il cinema forse rimane uno dei pochi ambiti in cui si lascia uno spazio di libertà che altrove non c’è.
Certo. Anche se non c’è una voce fuori campo o una vera e propria spiegazione, è presente un’interpretazione, un’intervento, una riflessione critica sulla realtà. Infatti a volte si parla di cinema di osservazione, ma io lo chiamerei più film saggio, dove c’è un tentativo di proporre una riflessione.
Come autrice donna, c’è secondo te il rischio che il genere e il discorso femminista diventi una sorta di step da attraversare per passare ad affrontare altri temi?
Penso che affrontare le questioni di genere, avvicinarsi ai discorsi femministi, per una donna (che sia un’artista, una mamma, una lavoratrice, insomma in ogni caso) sia una risorsa e uno strumento importante per la vita, per far fronte ad alcune delle dinamiche di potere che inevitabilmente popolano il nostro quotidiano, nel lavoro, nelle relazioni… Però come autrice non credo che sia uno step necessario affrontare questi temi, d’altronde non tutte lo fanno, non penso ci si debba limitare artisticamente a certi argomenti. Nel mio caso, nasce da un’urgenza personale e diventa anche contenuto creativo. Però al tempo stesso, i progetti futuri che sto immaginando non sono necessariamente connessi al tema del genere. Non credo sia un passaggio inevitabile e dovuto, anzi, sarebbe problematico se il discorso sul genere fosse confinato alle sole donne.
Parlando di progetti futuri, su cosa stai lavorando?
Ho cominciato a scrivere un nuovo progetto, qualcosa che provi a raccontare i processi di videosorveglianza volontaria, i nuovi panopticon, vedremo…