Scrivo con un pappagallino addormentato sulla spalla. Che lentamente si trasforma in corvo. Che lentamente si trasforma in un piccolo cacatua bianco: mi sento sorvegliata, e incantata al tempo stesso.
Ho sempre coltivato una libertà spericolata nel recensire letture e poesie: il più delle volte mi sono ben guardata dal recensire autori viventi o raggiungibili, sguazzando impudicamente nel mio laghetto di parole leggere e irresponsabili. Ho sempre cercato di scrivere di loro onestamente e senza timore, ma si è trattato sempre di una sincerità e di un coraggio facilissimi, visto che non dovevo scrivere guardandoli in faccia. Mi sono appropriata di quello che leggevo come res nullius, qualcosa che non appartiene a nessuno.
Queste poesie appartengono, invece, ad un nome e ad un volto ben precisi: appartengono a Fabrizio Strada, che ha all’incirca la mia età, vive (purtroppo per me) nel mio stesso secolo e leggerà oggi stesso quello che sto scrivendo di lui. Il che implica un certo potenziale di insulto.
Ecco perché pappagalli, cocorite, cormorani, pettirossi e martin pescatori svolazzano ora di gran carriera in questa stanza e sorvegliano le mie parole: sono terrorizzata all’idea che io possa fraintendere le poesie di Fabrizio – poesie che hanno fragili piccole ossa, e piumaggi bellissimi.
Stefania: Mi permetti di dirti che cosa ho visto nelle tue poesie? Mi dirai se lo trovi coerente, o se volevi dire qualcosa che io non ho visto.
Fabrizio: Sono pronto.
S: A ondate mi è arrivata addosso l’immagine di una giovinezza quasi sfinita, frustrata. Rotta. Sfiorita prima ancora di sbocciare. Eppure ogni tanto una luce, un colore… Una situazione di stallo, di disfatta, che da un certo punto di vista può anche essere quiete, stasi positiva.
F: Nel caso specifico della poesia che poi dà il nome al libro, io ho provato semplicemente a descrivere uno stato d’animo che mi tormenta da diversi anni e che mi vede inevitabilmente protagonista. L’abbandono, sempre presente nella mia vita. Abbandono da se stessi, abbandono come perdita, come spreco. La pace che spezza questa condizione arriva sempre dai luoghi e dalle situazioni più impensabili, sorprendendomi ogni volta.
S: Che cosa intendi per pace?
F: Il male aperto è una fase, un non luogo, un attributo umano e non umano. È una zona indefinita che alimenta la mia speranza. Per pace intendo la salvezza, il distacco da un mondo nel quale sono inciampato a mia insaputa e che devo ossessivamente cambiare…Il cinema, ad esempio, vivere il cinema come esperienza continua che prosegue anche dopo i titoli di coda…
S: È così che si spiega la comparsa nelle tue poesie, di tanto in tanto, di una specie di elemento bucolico?
F: Vivo da sempre in un contesto decisamente urbano, lontano anni luce dai larghi spazi. Vivo la città, di notte soprattutto. L’elemento bucolico è per me da sempre grande fonte di ispirazione, probabilmente proprio perché non ha nulla a che vedere con la mia quotidianità. Forse è proprio per questo che sono finito per idealizzarlo nel mio immaginario.
S: Potresti descrivermi l’ambiente in cui sei adesso? Diciamo nel raggio di due metri.
F: Mi piacerebbe essere uno di quei personaggi che vanno sotto un ponte o in qualche caffè malfamato a farsi rapire dall’ispirazione, purtroppo scrivo quasi sempre in una stanza della casa dove vivo che si affaccia su un cortile, di notte, al buio, davanti a un caminetto malandato. Il rumore della caldaia e degli armadi che scricchiolano mi fa compagnia.
S: Hai cominciato a scrivere le poesie di “In male aperto” così? E quando?
F: Parlando della raccolta il momento preciso non lo ricordo sinceramente. Però mi ricordo bene quando ho scritto la mia prima poesia. Mi trovavo in vacanza a Pantelleria in qualche orribile villaggio turistico e mi sono messo a scrivere al cellulare senza rendermi conto che stavo provando a dire qualcosa di veramente significativo per la prima volta nella mia vita.
S: La questione “casa editrice” mi interessa sempre moltissimo: come mai hai scelto proprio Formebrevi? Parlami anche della copertina del libro.
F: Dopo diverse proposte di contratto che prevedevano nella maggior parte dei casi un aiuto finanziario da parte mia, finalmente sono incappato in questa piccola realtà editoriale indipendente che ha creduto al 100% nel mio progetto e ha deciso di sposarlo totalmente. Gli sarò grato finché campo, anche perché la poesia, si sa, è un genere difficile da divulgare o più banalmente “vendere” perciò occorre un grande spirito umano. E lungimiranza. La copertina è stata scelta insieme, volevo un’immagine che fosse coerente con le tematiche e le suggestioni suggerite dal titolo stesso. Un susseguirsi di onde che però ricorda molto anche un filo spinato…mi è sembrata perfetta.
Di questo ragazzo poeta – che non fa colazione, che legge Saffo e Rimbaud, che nelle foto rubate a facebook assomiglia a Lapo Elkann e m’ha confusa (o ingannata?) con la sua timidezza gentile, dimessa – di questo ragazzo, di questo poeta non ho decifrato nulla se non una puntura di spillo: una puntura di spillo morbosa, un piccolo fiore.
Di queste poesie – che io vesto di rosa e di nero, di morte e di fiori – conservo lo strazio giovane, e stupito: uno strazio lungo e perpetuo, che sembra ineludibile, nero petrolio, pesante come velluto bagnato. Che, però, si stupisce ancora: di sé, della propria natura, della propria condizione – si lamenta perché si stupisce.
E nel lamento nidifica la non-accettazione, una specie di ricordo maleodorante che non si arrende non cede: lo strazio di chi allo strazio s’è ormai abituato e non si abituerà mai.
Mi sono innamorato di un cervo
una notte senza luna
ho perso le tracce del branco
per seguirti
la pioggia si è fatta morbida
il terreno ha smesso di scricchiolare
gli alberi si sono fatti da parte
l’ultima roccia si è aperta rivelando la tana.
In un angolo sperduto che non conosce inverno
ho deposto le armi.
Mi sento fortunata ad aver letto queste poesie. Vorrei poter dire di averle scoperte io – vorrei che si dicesse di me quello che si diceva di Nina Berberova: che sapeva fiutare la letteratura come la primavera -, la verità è che loro hanno scoperto me, ed io le raccolgo. Mi sento un segugio imbranato che la fortuna conduce di faccia e di naso su queste poesie, che sono funghi che sono tartufi che sono radici. Se chiedessi a Fabrizio forse mi direbbe che sono veleno, io dico che sono veleno, e primavera.