L’inconoscibilità della nostra anima | L’utopia di Claude Debussy
Era l’ottobre del 1908. All’80 di Avenue du Bois de Boulogne, in una Parigi illuminata da un pallido sole autunnale, Chou-Chou, minuta bimba dai capelli color dell’ebano, correva con una variopinta bambola di pezza verso il padre Claude, che, al pianoforte, si accingeva ad eseguire per la prima volta alcuni pezzi ispirati dagli spensierati giochi della figlia, i Chidren’s Corner. Claude Debussy, d’altronde, non aveva mai voluto celare il segreto nella sua musica: aveva sempre respinto la composizione fatta di equazioni complicate, ricerche armoniche e bizzarri problemi di contrappunto, cercando di svelare con la sua musica il mistero, quel quid che esula dalla razionale comprensione umana. Ben pensando c’è una consistente differenza tra i due: il segreto isola, esclude, essendo un’elettiva condivisione tra due singoli individui; il mistero, al contrario, ha un principio di comune umiltà, è ineffabile, inconoscibile per chiunque tenti di valicarlo.
Claude Debussy esplorava, alludendovi, il non luogo ove il mistero è declinato: noi stessi. La musica è infatti una via privilegiata all’incontro con la nostra individualità, ma, allo stesso tempo, è permeata dell’impossibilità di possederla a pieno e quindi di comprenderla e comprenderci. È intrisa d’insoddisfazione, in una continua tensione verso il raggiungimento del suo pieno significato, che ci sfugge di mano e continuamente muta.
Per Claude l’arte non doveva dire tutto ma, lasciando un alone d’indeterminazione intorno a quanto accennato, doveva permettere all’immaginazione e al sentimento dell’ascoltatore la possibilità, la libertà di definirsi, di continuare a risuonare. Nel linguaggio musicale è dicendo di meno che si dice di più.
Emancipando il suono dall’astratta convenzionalità, riscoprì la musica nelle mille voci della natura, come linguaggio del vento e del mare, come vibrazione di luce, profumo di fiori, in virtù delle rivelate corrispondenze tra le cose visibili e l’assenza intelligibile. Schiudendo il suo animo a una più vasta risonanza del mondo, iniziò ad esprimere, mediante analogie sonore, la realtà riscoperta; non la realtà delle apparenze sensibili, ma una ben più segreta, che solo l’artista sa cogliere.
Ritroviamo tutto questo in Doctor Gradus ad Parnassum, primo brano della raccolta Children’s corner, in cui è dipinta questa faticosa salita alla piena conquista del sapere: è una corsa che si apre, cresce, precipita. Un percorso che consente di vedere l’apice ma, allo stesso tempo, non ne offre la pienezza del raggiungimento (lo avvertiamo chiaramente nelle ultime note in cui, dopo un importante crescendo, si ricade verso tonalità più gravi con uno staccato improvviso). La corsa all’ignoto è, infatti, un enigma senza piena soluzione perché la cima del Parnaso, in fondo, non possiede alcuna verità: il fondamento dell’essere è inconoscibile, l’apparenza rimanda solo a se stessa. È un velo che ci lascia intravedere qualcosa ma cela, alla fine, l’inconoscibilità della nostra anima.
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