Licorice Pizza | Il mondo intero e qualcosa ancora
but the film is a saddening bore
for she’s lived it ten times or more
she could spit in the eyes of fools
as they ask her to focus on
sailors fighting in the dance hall
oh man, look at those cavemen go
it’s the freakiest show
Non è la prima volta che Paul Thomas Anderson si cimenta in un’operazione cinematografica immersiva e time-specific come Licorice Pizza, e non è nemmeno la prima volta che il nostro – senza grossi timori di smentita, il più grande regista americano della sua generazione, dagli esordi di Sydney (1996) fino a oggi – mette le mani sul cuore caldo degli Stati Uniti degli anni Settanta.
Lo aveva fatto ai tempi del suo primo capolavoro, Boogie Nights, miracolo di film per un autore ventisettenne che narrava – con un registro oscillante tra comico e tragico – le peripezie di un lavapiatti convertito in attore hard nel periodo della Golden Age dell’industria del porno, un attimo prima dell’arrivo dell’amatoriale. Era poi ritornato da quelle parti nel 2014 con l’adattamento di Vizio di Forma di Thomas Pynchon, che infilava Joaquin Phoenix e lo spettatore, pur senza dimenticare il ridicolo e il grottesco post-moderni, nella tunnel vision opprimente e allucinata dell’America nixoniana, giusto alla fine del sogno hippie. Licorice Pizza si colloca cronologicamente a mezza via fra i due predecessori, inseguendo una coppia d’innamorati inconsapevoli e una vasta gamma di personaggi laterali per i saliscendi della Valley del 1973, nei giorni della Guerra del Kippur e della crisi petrolifera.
Sembrano molteplici i motivi che spingono Anderson a battere nuovamente le stesse strade. Ricordi personali, innanzitutto, anche se necessariamente c’è poco autobiografismo – cresciuto proprio lì ma troppo giovane per avere memoria di quel periodo, il cineasta riadatta alla bisogna le sensazioni provate da bambino durante un’altra crisi energetica, quella del 1979, e la conseguente austerity. Poi, certo, un’evidente volontà di accostare il proprio nome a quello dei grande della New Hollywood, l’ultima volta in cui gli autori – Spielberg, Scorsese, Lucas, Coppola, De Palma, Peckinpah, almeno fino al tragico I Cancelli del Cielo di Cimino (1980) – abbiano davvero avuto carta bianca per far fare al mainstream un salto di qualità, con un occhio di riguardo al modello di sempre, Robert Altman.
Senza diventarne mai una copia, però: se nei classici di Altman – tutti, da MASH (1970) a Gosford Park (2001), passando per McCabe & Mrs. Miller (1971), Il Lungo Addio (1973), Nashville (1975) e America Oggi (1993) – emerge una dolorosa sfiducia nelle possibilità di redenzione della società americana, in Anderson traspaiono quasi sempre calore umano e affetto nei confronti dei personaggi narrati, se escludiamo il gelo de Il Petroliere (2007) e The Master (2012). Questo è particolarmente vero per Licorice Pizza, una delle opere più apparentemente episodiche e sconnesse del regista ma anche la più dolce e sognante, quella in cui la connessione emotiva tra le immagini sullo schermo e il pubblico in sala è più limpida e immediata.
Sarebbe peraltro davvero difficile rimanere indifferenti all’incontro tra Alana e Gary: venticinque anni lei, quindici lui, i due si incrociano alla prima inquadratura – uno shooting fotografico per l’annuario del liceo, passaggio obbligato per qualunque teen movie – e, prima che l’amicizia provi anche solo a immaginare di diventare altro, sembrano già inevitabili l’una per l’altro. Piglio conflittuale e fisicità sensuale e nervosa, Alana Kane arriva da una famiglia ebrea in cui la figura del padre è un’ombra ingombrante, almeno verbalmente violenta: a mezza via fra la giovinezza e l’età adulta, ingabbiata in un presente routinario e senza prospettive, la ragazza trova nella sfrontatezza di Gary Valentine una porta verso il nuovo.
Grassoccio, brufoloso, chiacchierone e in ogni caso bello pure lui, Gary – ispirato al produttore e child actor Gary Goetzman – è stato attore sin da bambino. Ora, cresciuto rapidamente, si arrangia come può tra un provino e l’altro; ma i ruoli che fino a qualche anno prima sembravano fatti su misura per lui adesso lo trovano semplicemente goffo e fuori luogo. Ma niente può fermare l’elettricità dell’adolescenza, anche quando l’estroversione nasconde profonde insicurezze: per quasi tutte le due ore di Licorice Pizza troveremo Alana coinvolta nell’inarrestabile flusso di bislacche idee imprenditoriali del ragazzo – dai materassi ad acqua Fat Bernie ai flipper. Dubbiosa, tentata da altro, in qualche modo sempre attratta.
Perché il loro, certo, è un rapporto disfunzionale – entrambi si concedono più di una deviazione, lungo il percorso – ma di fronte alla rovina degli adulti somiglia a un porto sicuro cui fare ritorno. Sono sogni infranti, i grandi, mezze figure rovinate dall’ego che nemmeno se ne rendono conto: non il memorabile Jon Peters di Bradley Cooper, ossessionato da fica e vetri rotti; non il macho Jack Holden di Sean Penn, figura tristemente credibile all’incrocio tra Steve McQueen ed Evel Knievel; non il candidato sindaco Joel Wachs, interpretato da Benny Safdie – metà di quei fratelli Safdie autori, fra gli altri, dell’ottimo Uncut Gems (2019). Alana tende spesso verso di loro, istupidendo all’improvviso, come dovesse obbedire a un’educazione di stampo conservatore e patriarcale che la spinge a cercarsi una qualsiasi stabilità, fosse anche solo di facciata.
Ma poi, inevitabilmente, torna da Gary: trovandosi, altrettanto inevitabilmente, delusa da ogni sua nuova dimostrazione di immaturità.
Del resto, è proprio lei l’unico personaggio che sembra conoscere il senso della parola “responsabilità” e il peso che questa comporta. In una sequenza che lascia a bocca aperta – Alana guida in retromarcia un camion rimasto a secco lungo i tornanti di una delle tante discese di Los Angeles, portando in salvo sé, Gary e gli amici – è lei la sola a comprendere la portata del rischio corso: per i ragazzini, galvanizzati, è solo un’altra storia incredibile da raccontare; gli adulti, come sempre, risultano non pervenuti.
Funziona così, Licorice Pizza, straordinaria macchina di sequenze che a un primo approccio potrebbero sembrare irrelate e che invece, per accumulo ed esattamente come le strip dei Peanuts, vanno a costruire un precisissimo ritratto del feel di un’epoca intera: dalla sensazione di sogno a occhi aperti che accompagna ogni nuova speranza al festoso chiasso dei locali, fino alla minaccia latente di un potere subdolo e idiota – l’arresto improvviso di Gary; le scene del comitato elettorale, che non possono che richiamare alla mente quelle di Taxi Driver (1975).
Il casting è un altro colpo di genio, come d’abitudine. Licorice Pizza relega le star a caratterizzazioni macchiettistiche – da menzionare anche Tom Waits, rauco oltre l’immaginabile – e mette al centro della scena due esordienti assoluti.
Gary è Cooper Hoffman, diciannove anni da compiere questo marzo e figlio del compianto Philip Seymour Hoffman, che a Paul Thomas Anderson ha regalato interpretazioni gloriose. Somigliante al padre in modo impressionante, dalla zazzera bionda fino alla spigliatezza sgraziata, il ragazzo offre momenti di purezza commovente – guardatelo compiere sedici anni e allontanarsi in auto da Alana, per la prima volta solo, la bocca lievemente aperta e tremolante di terrore e incredulità. Lei, invece, al palco è già abituata, ma da musicista: Alana Haim è una delle tre sorelle Haim, per cui Anderson ha diretto già diversi videoclip. E per quanto la loro proposta musicale – un blando indie – possa risultare divertente, non c’è paragone con lo stardom che Licorice Pizza sembra poterle garantire come attrice: nervi a fior di pelle, rabbia che muta rapidissima in fragilità, Haim è una forza della natura.
Attorno a loro e a un meraviglioso coro di personaggi minori – soprattutto amici di Gary: identificabili, di nuovo come in Charles M. Schulz, per una pettinatura o un outfit ben definiti più che per senso preciso all’interno della trama – volteggia una colonna sonora perfettamente calibrata, con un tema agrodolce scritto da Jonny Greenwood e una selezione di brani che oscillano tra fifties e seventies, tra utopica innocenza e brusco risveglio, tra Bing Crosby e David Bowie, Nina Simone e Doors.
E sono gli anni del classic rock e del soul, della radio e delle corse in auto, d’accordo, ma sono ancora i dettagli a fare la differenza: provate a chiudere gli occhi mentre scorrono soavi le note jazz di Sometimes I’m Happy di Johnny Guarnieri o, dolcissime, quelle dell’introduzione a Softly Whispering I Love You dei Congregation: ci vorrà un po’ prima di convincervi di non essere finiti per sbaglio dentro al pianoforte e alla testa del Vince Guaraldi di A Charlie Brown Christmas.
È un incanto, Licorice Pizza, dal quale si fatica a uscire: alla fine della proiezione ci si ritrova a desiderarne ancora, di quel mondo matto, giovane e colorato, romantico e perennemente alla rincorsa di qualcosa o qualcuno. La sua polveredistelle rimane impressa sulla retina per ore e giorni, come una lente che consenta di guardare alla vita con un po’ di speranza in più, particolarmente in certi momenti di sublime dolcezza: a un certo punto, mentre Alana è al volante, Gary e gli amici scoppiano in una risata fragorosa. È una scena che ne richiama chiaramente un’altra, dal capolavoro di Peter Bogdanovich L’Ultimo Spettacolo (1971).
Ma mentre là una sala cinematografica chiudeva i battenti e una generazione di giovani veniva mandata a morire nella guerra di Corea, nel film di Paul Thomas Anderson l’adolescenza è il grimaldello per scardinare il grigio e il monotono. Una luce accesa, come se non dovesse mai scendere la notte.
Titolo: Licorice Pizza
Regia, soggetto, sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 133′
Anno: 2021