L’haiku giapponese e il vuoto della parola
古池
蛙飛び込む
水の音
furu ike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto
Un vecchio stagno
Balza dentro una rana
Rumor d’acqua.
Soseki, allievo di Confucio, interrogato dal maestro riguardo la sua massima aspirazione nella vita, rispose: “Immergermi nell’acqua limpida, sentire il vento che soffia, comporre versi e rientrare a casa”.
Il nipponico Haiku è ben più di una elegante forma di poesia ma piuttosto il tentativo di raggiungere l’apice della meditazione filosofica, che ha per oggetto la presa di coscienza della transitorietà degli elementi. Nella pratica del buddismo Zen, dalla consapevolezza del continuo mutare della materia, scaturisce la necessità di una immersione totale nella contingenza dell’Essere, nell’abbandono dell’individualità, nell’urgenza d’una dispersione della propria identità nella Natura. Essere come il soffiare del vento: mai uguale a sé stesso. Lo stretto legame con la Natura non vuole essere un simbolo ma la collocazione ontologica dell’uomo nel mondo. Non c’è metafora nella natura: essa è la sola prova che l’uomo è ed esiste solo in quanto sottoposto ad una stagione, che lo fissa nel tempo e nello spazio.
Quando ci viene detto che fu il rumore della rana a risvegliare Basho (1644 – 1694) alla verità dello Zen, s’intende infatti non tanto la scoperta di una illuminazione, quanto la percezione dell’esaurirsi del linguaggio: esiste un momento in cui il linguaggio viene meno e questa “cesura senza eco”, costituisce allo stesso tempo la verità dello Zen e la forma breve e vuota dello haiku.
Esso non si costituisce d’un pensiero complesso ridotto a forma breve, ma di un evento breve che trova tutt’a un tratto la sua forma esatta. Come una nota musicale: sferica e vuota.
Per queste ragioni le vie dell’interpretazione non possono che sciupare l’Haiku: il lavoro di lettura ad esso connesso sta nella sospensione del linguaggio non nella sua alimentazione.
Il senso, l’agognato significato, sta nel significante, è il vuoto della parola, lo stesso che costituisce la scrittura. Ed è da questo che nascono i tratti con cui lo zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza (cit. R. Barthes, L’impero dei Segni, pag. 8).
Roland Barthes
L’impero dei Segni
Piccola biblioteca Einaudi, 1984