Vita nei boschi. Canzoni e sortilegi di Adrianne Lenker
Era sabato 22 febbraio, appena prima che si fermasse tutto, e io me ne stavo schiacciato con Andrea e qualche altro centinaio di persone tra i venti e i quaranta dentro a un caldissimo Locomotiv Club, qui a Bologna. Dal palco, Adrianne Lenker e i suoi Big Thief lanciavano incantesimi folk-rock ripescati dai loro quattro album, aggiungendo pure qualche inedito – una pratica abituale per la band ma ormai quasi del tutto abbandonata in quei giorni in cui la musica dal vivo veniva ripulita dell’eccitazione elettrica dell’imprevisto, in pratica di ciò che dava senso all’attributo “live” (uso l’imperfetto: chissà come sarà, quando ritornerà).
Se la vera meraviglia esiste ancora, oggi, nella musica fatta di chitarre gentili e rumorose e di voci imperfette e piene di grazia, ha decisamente le sembianze dei Big Thief e prende corpo in canzoni che si scoprono strada facendo grazie alla straordinaria interazione di musicisti che paiono condividere un unico sistema nervoso. Un processo comunicativo continuo fra quattro individui che non si nascondono nulla, tanto che anche quando si danno le spalle sul palco per rivolgersi al pubblico sembra che stiano comunque guardandosi negli occhi – se così non fosse, quei brani che spesso emergono da una foschia di suoni casuali non avrebbero, da soli, la forza di farsi rituali collettivi e catartici su cui lasciare il cuore.
Nel post scriptum Apausalypse al suo ottimo Il Tempo e l’Acqua, lo scrittore islandese Andri Snær Magnason ragiona sul cambiamento climatico e riflette su quanto la pandemia ci abbia costretti a rivedere completamente le nostre abitudini, dandoci anche l’opportunità di pensare a cosa vorremo portarci dietro e cosa ci servirà davvero nella vita che verrà dopo. Nelle sue parole – mai irrispettose della tragedia in sé, sottolineo: il suo accorato umanesimo scientifico abbraccia il dolore di tutti – l’apocalisse torna ad assumere il significato originario di “rivelazione”.
Sono uno dei fortunati, in questo 2020, e riconosco facilmente il mio privilegio: quello di chi la marginalità sociale la può guardare sempre da una certa distanza e descrivere, anche se questo non basta a salvare da una depressione; quello di chi può fermarsi a pensare alle proprie passioni quando rientra dal lavoro la sera. E so che tra le emozioni che vorrei conservare per il prossimo mondo che abiterò – una di quelle che trasformano una sopravvivenza in una vita piena – ci sono anche le canzoni di Adrianne Lenker.
Proprio nei giorni di ottobre in cui ricominciavano le chiusure, è tornata come se sapesse che avrei avuto bisogno di ascoltare la sua musica esattamente quanto lei aveva sentito il bisogno di scriverla e inciderla: a due anni da Abysskiss, Adrianne ha dato alle stampe un doppio album, diviso in un ciclo di undici meditazioni per voce e chitarra (Songs) e due chilometrici strumentali (Instrumentals) registrati in francescana povertà di mezzi in un capanno da qualche parte ai piedi dei monti Berkshire, nel Massachusetts occidentale. Nessuno ad accompagnarla lì in primavera, a parte l’amico Philip Weinrobe per le registrazioni; e niente suoni che non fossero una Martin acustica, il canto e i sospiri di Lenker e tutta la natura dentro e fuori il legno di quattro pareti.
In un longform del New Yorker di qualche settimana fa – monografia, intervista e reportage insieme: splendido, davvero – Buck Meek, chitarra e controcanti nei Big Thief ed ex-marito della songwriter, parlava della sua scrittura in termini di abbandono dello stato di coscienza, una specie di sortilegio toccato dalla grazia tra lei e la chitarra, che da ebbro nonsense si fa pian piano storia e riflessione compiuta; Jeff Tweedy dei Wilco coglieva e magnificava invece il mistero della visione peculiarissima di un’artista pura e radicale, qualcosa che fa prendere alle canzoni una direzione eccentrica che solo Lenker sembra riuscire a immaginare e che poi, all’ascolto, risulta l’unica praticabile.
Sono qualità, queste, che solo i grandi possono vantare.
Viste le premesse di Songs / Instrumentals ci si immaginerebbe di poterlo associare al più noto disco cantautorale di questo millennio, For Emma, Forever Ago, pure quello un breakup album registrato in completa solitudine nei boschi del Wisconsin e diventato un disco vero e proprio quasi per sbaglio; eppure, riascoltando l’esordio di Vernon – un’opera mitologica, per la mia generazione – oggi fatico a non percepirlo come un prodotto di cui si riconosce tutta la filiera. Al contrario, nelle canzoni di Lenker – e particolarmente in queste – non c’è distanza tra composizione ed esecuzione, come se venissero concepite e suonate nello stesso momento: lo stesso effetto naturalistico di totem come Blue Afternoon o Solid Air.
Nati quasi tutti in loco, i brani di Songs sono un ennesimo trionfo di scrittura; fantasiosi, delicati e dreamy, non si potrebbe immaginare per loro casa più confortevole di quel sindacato del sogno chiamato 4AD né involucro più adeguato del coloratissimo artwork che li avvolge, un tema floreale dipinto ad acquerello dalla nonna Dianne Lee.
La prima metà è certo quella più elaborata – noterete subito le sovraincisioni di voci e chitarre su un classico istantaneo come Anything o sulla trance di Half Return. Il battere ostinato di Ingydar ricorda la Walkthrough di Any Other, mentre Two Reverse tiene un passo ingannevole: sembra impaziente di correre avanti e poi aspettarci con le mani sui fianchi, con le spazzole che stantuffano come una miniatura di locomotiva; e invece no, rimane sempre lì, indecisa.
Ma non è un caso, io credo, che questi pezzi siano costruiti su microvariazioni, come se ognuno girasse intorno a un minuscolo nucleo melodico che ha l’aspetto di un ricordo perfetto che non si vorrebbe lasciar andare: sono figli di una relazione finita e della paura del vuoto che ogni fine porta con sé – “oh, emptiness tell me about your nature / maybe I’ve been getting you wrong / I cover you with questions / cover you with explanations / cover you with music”, canta Adrianne nel ritornello mesmerico di Zombie Girl.
E Dragon Eyes è proprio il suono di qualcuno che si sveglia solo e con gli occhi umidi in una mattina di primavera ricordando com’era svegliarsi con qualcuno al proprio fianco.
Nel secondo disco, Instrumentals, i toni contemplativi ed estatici del materiale vantano una qualità polisensoriale.
Di tanto in tanto un arpeggio sembra emergere dalla memoria di una canzone amata – per un breve momento, da qualche parte all’inizio di Music For Indigo, è come se la chitarra seguisse le tracce di The Biggest Lie di Elliott Smith – ma poi gli occhi cadono sul colore di una foglia, su un riflesso nell’acqua, sul rumore di qualcosa che zampetta proprio lì accanto sul pavimento, e allora le corde fremono di desiderio per farsi un tutt’uno col circostante. E per quanto il fingerpicking di Lenker sia virtuoso, la sacralità di ogni singolo frammento fa passare in secondo piano la tecnica: qui non si suona una canzone, si dipingono mondi.
In alcuni istanti, la perfetta simbiosi tra la musicista e la natura intorno a lei rende poi letteralmente indistinguibili il fuori e il dentro.
C’è un momento, in Grizzly Man di Werner Herzog, in cui Timothy Treadwell è chiuso nella propria tenda con una volpe con cui ha appena fatto amicizia e sta urlando al cielo perché si decida a piovere dopo settimane di siccità; quando comincia, non smette più, e quel temporale noi non lo possiamo vedere, ma lo sentiamo attraverso lo sguardo stupito e le urla di gioia dell’uomo.
Ecco: a un certo punto anche in Music For Indigo piove, e sembra che tutto l’universo stia congiurando per radunarsi intorno a una piccola chitarra dentro a un capanno in un bosco, in perfetta armonia. Poi non c’è più molto che un essere umano possa aggiungere, e infatti Mostly Chimes lascia che sia la natura a suonare, il vento che soffia i campanelli del porticato mentre Adrianne si allontana camminando sulle foglie secche.
Ha del miracoloso imbattersi in opere d’arte realmente trasformative, che lascino un’impressione nuova e indelebile sulla retina anche una volta che se ne è distolto lo sguardo, come se non fosse più possibile tornare a vedere la realtà nella maniera in cui la si vedeva prima. Ed esperienze come Songs / Instrumentals e artiste come Adrianne Lenker sono tanto più necessarie in un momento storico in cui la prospettiva del pensabile è schiacciata su un orizzonte temporale limitatissimo, respiro corto e cieli bassi.
Qui, al contrario, troverete aria, vicinanza, empatia: un messaggio in una bottiglia con la scritta “nessuno è un’isola”.
Autore: Adrianne Lenker
Titolo: Songs / Instrumentals
Etichetta: 4AD
Durata: 39’ + 37’
Anno: 2020
ANCORA. SUGGESTIONI E ASSONANZE
CINQUE COSE DA ASCOLTARE
Blue Afternoon – Tim Buckley
Solid Air – John Martyn
Elliott Smith – Elliott Smith
The Marionette And The Music Box – Unwed Sailor
Ricordo Quasi Tutto – Adriano Zanni
CINQUE COSE DA VEDERE
Grizzly Man – Werner Herzog
Senza Lasciare Traccia – Debra Granik
Border – Ali Abbasi
Hong Kong Express – Wong Kar-wai
Cameraperson – Kirsten Johnson
CINQUE COSE DA LEGGERE
Il Tempo e l’Acqua – Andri Snær Magnason
Bestia di Gioia – Mariangela Gualtieri
Più Lontano ancora – Jonathan Franzen
Walden ovvero Vita nei Boschi – Henry David Thoreau
La Domanda della Sete – Chandra Livia Candiani (consigliato da Stefania)