Scivolare in Marilynne Robinson è come perdersi nel labirinto degli specchi.
“Le cure domestiche” è un romanzo sulla famiglia sull’assenza sul buio e sull’attesa: là dove siamo stati amati, quella è casa. Dove l’amore si nasconde nelle pieghe della quotidianità domestica – nel pane imburrato e nella composta di mele, nel bucato, nei mirtilli raccolti, nei vestitini stirati, nelle torte di compleanno – si nasconde: e non-visto, laborioso, dall’interno ci costruisce, e costruisce l’immagine di stabilità, di senso, di permanenza e di appartenenza che rincorreremo per tutta la vita quando tutto ciò sarà andato perduto, o addirittura mai realmente posseduto, ciascuno reagendo alla mancanza con rabbia o con sbigottimento o con rassegnazione o con pazienza anestetizzata.
Scivolare in Marilynne Robinson è come perdersi nel labirinto degli specchi.
Ruth e Lucille passano di mano in mano: nella vecchia casa di Fingerbone – una vecchia casa sghemba, intricata, che conserva ricordi e dolori e resiste alle inondazioni al fango all’accumulo e al disordine – passano dalle cure distratte ed eccentriche della loro mamma alle cure impeccabili e laboriose della nonna, a quelle intimorite e frigide delle zie, fino a quelle della svampita Sylvie, zia vagabonda. Di cosa è fatta una famiglia?
Scivolare in Marilynne Robinson è come perdersi nel labirinto degli specchi.
E sullo sfondo di Fingerbone, il lago: con i suoi odori e rumori e la sua cupa fame e la sua scura protezione. Il lago, bestia silente e in agguato.
Scivolare in Marilynne Robinson è come perdersi nel labirinto degli specchi: compri un biglietto al luna park con la tua timida voce di bambina, compri il libro leggera. Varchi la soglia della giostra nascondendo in tasca il sacchetto delle liquirizie (ti sdrai sul divano rosso col tuo libro nuovo, il tè freddo in bilico sull’ombelico), ti volti a guardare la mamma un’ultima volta, “Ti aspetto qui”. Capitolo primo.
Marilynne Robinson lavora la sua prosa come una sartina, un’artigiana, se ne prende cura con mani calme pazienti e chirurgiche, gli occhiali da vista calati in punta di naso proteggono occhi attenti e benevoli. Marilynne Robinson incanta. E tu scivoli nei suoi corridoi eccitata, elettrizzata, le luci cambiano colore con dolcezza e una musica intima, piacevole, ti accompagna. Che romanzo dolce e strambo, che m’è capitato – pensi.
Sei appena entrata, il chiasso ciarliero del luna park là fuori ancora non t’ha abbandonato, e così la luce del giorno, e la fiducia: ti aggiri allora silenziosa e allegra per alcuni minuti ovattati, poi la giostra ti inghiotte. Continua a camminare non ti sarai già persa è solo un gioco, è solo un libro. Marilynne Robinson si fa imprevedibile, e inafferrabile. A tentoni, al buio, tu prosegui – la segui – perdi i punti di riferimento ma è normale qui sta il bello del gioco, del labirinto, dove mi vuoi portare, Marilynne?
Scivolare in Marilynne Robinson è come perdersi nel labirinto degli specchi.
Marilynne, dove mi vuoi portare. Il senso arriva prima fra le costole e alla gola e allo stomaco e sotto le ciglia, soltanto dopo alla testa – e non è detto che ci arrivi, che debba arrivarci per forza: si insinua sotto pelle come un dolore bellissimo.
“(…) desiderare una mano sui capelli è quasi come sentirla davvero. E così qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo. Benché sogniamo senza neppure saperlo, il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.”
Ora il buio circostante è totale, completo, sazio. Brillano solo le superfici degli specchi lungo i corridoi infiniti, che ti rimandano immagini, di te stessa?, che sono reali che sono soltanto sognate: ho molta commozione da trattenere, che non riesco a trattenere.
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Autore | Marilynne Robinson
Casa Editrice | Einaudi
Anno | 2016 (1980)
Pagine | 199