Lazzaro Felice, Alice Rohrwacher fra Pasolini e rivoluzione gentile
Nell’ambito del FilmFest München, mi sono ritrovato alla prima tedesca del film italiano di Alice Rohrwacher che ha vinto il Prix du scénario all’ultimo festival di Cannes, Lazzaro Felice. A Monaco pioveva, tanto per cambiare. La sala era invasa da italiani (come quasi ogni cosa a Monaco, in realtà), ma anche molti tedeschi affollavano la sala. La regista era presente in sala, sorridente ed eterea, per raccontarci cosa significasse per lei questo film.
Alla fine abbiamo applaudito, anche i tedeschi, che solitamente non hanno grandi moti di entusiasmo.
Ps: le variazioni linguistiche nelle traduzioni mi hanno sempre affascinato. Il titolo tedesco è Glücklich wie Lazzaro, che contiene al suo interno il concetto di fortuna, oltre che di felicità, e suona così: “Felice e fortunato come Lazzaro”.
Il film comincia senza una definizione né temporale né geografica, e spazio e tempo sembrano sempre curiosamente indefiniti nella narrazione, quasi mescolati fra di loro. Ci troviamo in una campagna del centro Italia che presenta elementi geografici collinari e montuosi, brulli a tratti. La lingua parlata è un intreccio di dialetti, senza che uno risulti il più rappresentato. È la stessa regista che spiega, dopo il film, la volontà di non dare riferimenti spaziali precisi, ma di indicare solamente un dentro e un fuori: dal villaggio, dalla comunità umana, dalla casa intesa come forma di aggregazione. Ugualmente il tempo inizialmente è assente ed il concetto di prima e dopo vale solo per alcuni personaggi. Iniziamo a capire la collocazione temporale dai dettagli (le macchine, i cellulari) che inquadrano la prima parte in generici anni ’90 e la seconda circa ai giorni nostri. Anche quando il tempo è più definito, non lo è per i personaggi che subiscono negli anni un invecchiamento fisico che rispecchia non il tempo anagrafico, ma il tempo morale. Potremmo dire che invecchiano in base a quanto sono buoni, ma non esistono buoni o cattivi, in realtà.
A parte Lazzaro.
“Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti agli ultimi prati.
Lì mortale è il silenzio”
La regista è rossa e azzurra
Lazzaro è una figura misteriosa anche per i suoi compagni di lavoro. Sfruttato, ma sempre sorridente; sempre disponibile e pronto a dire sì; non conosce il rifiuto e sembra incapace di provare sentimenti negativi, anche quando viene deliberatamente deriso per le sue qualità. La figura di Lazzaro ha qualcosa di epico e religioso allo stesso tempo. Ricorda il principe Myškin di Dostoevskij, per la sua mitezza quasi sovrannaturale e l’incapacità al male. Allo stesso tempo, tende a diventare una figura cristologica, destinato a farsi portatore del male altrui (ma col sorriso). Il personaggio è portato sullo schermo da un incredibile Adriano Tardiolo, attore non professionista scovato dalla regista mentre la troupe cercava le location in cui girare. La stessa regista ci racconta l’incontro come qualcosa di surreale e magico, con Adriano che ha inizialmente rifiutato la parte perché “come si fa ad accettare un lavoro che non si conosce e non si sa fare?”. La troupe, allora, ha dovuto allestire un finto set per mostrare al giovane cosa significasse fare l’attore e quali sarebbero stati i suoi compiti e ruoli. I suoi occhi che guardano il cielo sono limpidi, la sua presenza sempre lieve e mai rumorosa. Nella seconda parte del film, dopo una cesura che fa sobbalzare il pubblico, assurge a figura messianica e miracolosa, ma sempre senza chiasso, in punta di piedi.
Lazzaro Felice procede su due piani intrecciati: uno sfondo corale e la vicenda di Lazzaro. Lazzaro si muove all’interno di una storia di sfruttamento. C’è un visibile intento politico dietro alla trama del film, che racconta di un villaggio tenuto a schiavitù anche in tempi in cui questa dovrebbe essere abolita, e successivamente di come gli ultimi rimangano sempre gli ultimi, ovunque vadano. Lo sfondo ricorda certe opere di Pasolini, poeta ancor prima che regista, soprattutto per quanto riguarda il passaggio da una struttura sociale agricola a una dimensione cittadina, ad una “nuova condizione di vecchio lavoro e vecchia miseria”. Ne ho discusso con la regista, che ha negato di aver pensato a Pasolini. Forse però, ammette, queste idee ormai fanno parte del suo (del nostro, mi piacerebbe dire) sguardo. È un pensiero molto bello.
“Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.”
In questo mondo dove si può venir solo mangiati, dai padroni, dai tuoi compagni di sventura o da coloro che, pur schiavi, si credono liberi (l’ultima scena è emblematica), Lazzaro è una figura completamente rivoluzionaria. La mitezza e la gentilezza, ci dice, sono rivoluzionarie. In una realtà perennemente in lotta, la gentilezza è pura anarchia, puro rifiuto del sistema. Se ne rende conto il giovane figlio della Marchesa, che intesse col giovane contadino una strana ma duratura amicizia: Lazzaro è un concetto, un concetto rivoluzionario. Attraversa la storia (e la Storia) portando il suo messaggio e rendendo più bello ciò che tocca. La bellezza che egli porta con sé è anch’essa profondamente rivoluzionaria. Tuttavia, non è mai attore nella storia, ma solo ispiratore. Lungo il film l’aspetto puramente metaforico di Lazzaro diventa via via più evidente, soprattutto nell’ultima parte dove intorno all’eterno ragazzo sembrano succedere miracoli. Ma lo sono davvero? O semplicemente i protagonisti guardano il mondo in maniera diversa, per via di Lazzaro, e trovano, per la prima volta la bellezza là dove c’era solo sterpaglia ai lati della ferrovia?
Il finale è agro e forse un po’ sbrigativo, ma molto crudele nei confronti della nostra società. Se non riconosciamo la bellezza della gentilezza e della mitezza, cosa rimane della nostra umanità?
“Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
passioni. Ma non su queste forme
pure della vita… Si riduce
ad esse l’uomo, quando colme
siano esperienza e fiducia
nel mondo…”
Estratti da “Il Pianto della Scavatrice”, Pier Paolo Pasolini