Lasciami andare, madre | Una confessione a cuore aperto
Ho comprato tre libri per affrontare questa quarantena; tre romanzi che, sì, mi sono piaciuti, ma che, come direbbe Holden, non mi hanno fatto venire voglia di chiamare l’autore al telefono dopo aver sfogliato l’ultima pagina. Eppure, mai avrei immaginato che la storia più emozionante che avrei letto in questi giorni, si trovasse sulla mensola della mia camera. I volti sorridenti di due bambini segnano la copertina del testo: Lasciami andare, madre di Helga Schneider, una scrittrice tedesca profondamente legata alle sue origini, alla sua infanzia fatta di violenze, abbandono e guerre.
«Il sentimento dell’odio mi è sempre stato estraneo»
RUDOLF HÖSS (Comandante del campo di sterminio di Auschwitz)
La premessa è un campanello d’allarme, un monito che merita una seria attenzione. E infatti, la prima pagina di Lasciami andare, madre, non delude le aspettative; il lettore si trova subito nel mezzo di una verità: Vienna, martedì 6 ottobre 1998. In albergo. Dopo ventisette anni oggi ti rivedo, madre, e mi domando se nel frattempo tu abbia capito quanto male hai fatto ai tuoi figli. […] Oggi ti rivedo, madre, ma con quali sentimenti?
A metà tra racconto e diario, l’autobiografia dell’autrice è un disperato tentativo di fuga, ma per certi versi si ha, anzi, l’impressione che la protagonista voglia ricongiungersi con una versione scomoda del suo passato. Perché quella donna, per Helga, non è stata una madre qualunque, ma la sua autentica ossessione: una ragazza che, attratta dall’ideologia nazista, nel 1941 abbandona due figli e un marito per lavorare come guardiana ai campi di concentramento e di sterminio di Ravensbrück e Auschwitz-Birkenau.
La prosa è incisiva, elegante, semplice come lo è l’ambientazione: una casa di riposo per anziani. Il minimalismo di un linguaggio così crudo e diretto, ci permette di avvicinarci, pagina dopo pagina, ad una certezza che, in fondo, non si raggiungerà mai. Noi siamo lì, in quella stanza, ad osservare i loro sguardi imbarazzati, i loro respiri affannosi, la loro gelida vicinanza.
Siamo d’improvviso coinvolti in un flusso continuo di flashback e pensieri, poco felici, di ciò che è stata l’infanzia della Schneider; vicende scioccanti, pensieri che ti fanno quasi venir voglia di chiudere il libro e scaraventare tutto quel male il più lontano possibile: Pensiero intollerabile, madre, quei bambini piccoli separati dalle madri per essere inviati, soli, alle camere a gas. Pensiero intollerabile: che di tutto questo la mia stessa madre sia stata complice.
Le pagine si susseguono rapidamente, le parole sono accompagnate da fatti, orribili, e la scrittrice non fa nulla per nasconderci il volto ancestrale della sofferenza.
Lasciami andare, madre è un viaggio profondo. Non è tanto una storia sull’Olocausto ma del sentimento che ne consegue; nulla viene lasciato al caso, infatti, tutto viene trattato con empatia e rispetto, comprese le nefandezze commesse, la rabbia ingiustificata. Helga Schneider non ci chiede di dimenticare, né tantomeno di comprendere; lei stessa fatica a perdonare la sua “Mutti” (mamma), perché di fronte a certe parole: Odiare gli ebrei era un dovere imprescindibile per un membro delle SS, capisci? persino la naturalezza diventa inspiegabile.
Pertanto è difficile analizzare la complessità del rapporto madre-figlia; soprattutto quando quella stessa madre, mostra con fierezza, alla figlia, la divisa nazista (chiedendole addirittura di indossarla), e racconta gli incontri nel famoso bunker del Führer, la disciplina dei soldati, gli episodi più drammatici che si consumavano all’interno dei campi. A distanza di anni era ancora orgogliosa di quel passato. Su questo particolare, però, aleggiano nella mente del lettore tensioni, inquietudini, dubbi di partenza.
Se da una parte l’autrice avanza una pretesa di vendetta e giustizia, dall’altra, vuole capire se un essere umano possa veramente cambiare dopo essere tornato tutto intero da quell’inferno. Dopotutto, l’autrice viene a saper solo nel 1971 che la madre vive a Vienna, in un ospizio, e che è stata condannata a sei anni di carcere dal Tribunale di Norimberga.
I dialoghi interiori di Helga Schneider, i suoi turbamenti, si intrecciano con quel pentimento che tarda ad arrivare, e quel richiamo autentico e dominante che dovrebbe accompagnare una figlia in quel porto sicuro chiamato “madre”, si fa man mano più sibillino. Il ritratto di questa donna, dunque, serve non solo a rafforzare le testimonianze della Shoah, ma ad umanizzare, per capire, anche ciò che più minaccia la nostra società: indifferenza, negazionismo, valori deprecabili che alimentano la nostalgia verso un passato malato.
Lasciami andare, madre è un’esperienza da affrontare serenamente, senza aspettarsi nulla in cambio, perché la potenza della letteratura risiede proprio in quel suo essere giudice imparziale di storia, di parole, di emozioni. All’inizio sarà dura, potreste non avere voglia di proseguire, ma vi garantisco che, alla fine, ne uscirete infastiditi, sì, ma affamati di verità.
Questo libro è una confessione a cuore aperto; non una di quelle semplicistiche che si riduce ad un banale “la mamma è sempre la mamma”, ma una di quelle lucide e imparziali, una confessione che attraversa le pagine più buie dell’umanità, e lo fa con un incredibile voglia di ricongiungersi a un sentimento ormai straniero. Come dimostra il toccante interrogativo dell’autrice:
Sei stata davvero un’irriducibile nazista, madre, o hai detto tutte quelle cose orrende per aiutarmi a odiarti? Guardo i suoi occhi fiduciosi che si riflettono nei miei, e penso: no, non la odio. Semplicemente, non la amo.
Luigi Affabile
Titolo | Lasciami andare, madre
Autore | Helga Schneider
Editore | Adelphi
Anno | 2001